All’inizio degli anni ‘70, dalle città costiere della California, un piccolo gruppo di giovani arrampicatori si spinse verso est, in direzione delle grandi montagne della Yosemite Valley. Decisero di vivere al di là degli schemi tradizionali, accampandosi fuori dalle loro auto, dormendo accanto a fuochi da campo e costruendo da soli attrezzature per arrampicare, vendendole poi per sopravvivere. Erano vestiti con bandane, capelli lunghi, occhiali da sole e le loro mani, ovviamente, erano ricamate di tagli e calli. Forti, fieri e senza paura, con quel tanto che basta di carne in scatola nello stomaco e altrettanto “fumo” nei polmoni, stabilirono alcune tra le più importanti tecniche di ascesa, aprendo la via a spettacolari salite, effettuate con il minimo della strumentazione. Il nome con cui questi “dirtbags” (sfigati, strani o imbranati) è passato alla storia è Stonemasters. Letteralmente maestri di roccia, in pratica pionieri leggendari, climbers che si riunirono per far saltare le tradizionali convenzioni dell’arrampicata. E che oltre alle loro insuperabili capacità di arrampicatori, incarnarono uno stile di vita ben definito: spostando la frontiera dalla linea dell’orizzonte alla verticalità delle pareti, rappresentano ancor oggi la non-conformità, la ribellione e una way of life giovane e libera. In una parola: hippie.
Tra tutte le sintesi possibili, probabilmente la più precisa resta questa:
“…took the light stuff seriously and the serious stuff lightly”.
In italiano la traduzione potrebbe essere: “prendere seriamente le cose leggere e leggermente le cose serie”. In poche parole take it easy, uno stile di vita basato sulla semplicità, consumato lontano dalla frenesia delle grandi metropoli e fruito in sincrono con la lentezza dei cicli naturali. Insomma, un modello che ha avuto un grande impatto sulla cultura giovanile degli anni 70, che di recente tutto il mondo ha riscoperto tramite la vicenda di Chris McCandless (raccontata da Jon Krakauer nel libro Nelle terre selvagge) e che affonda storicamente le proprie radici nei libri di Jack London e Henry David Thoreau.
Questi spiriti liberi, sempre alla ricerca di quell’adrenalina che solo Madre Natura riesce a dare, possono essere considerati a buon diritto i pionieri del free climbing. Chi erano? Atleti leggendari del calibro di Rick Accomazzo, Richard Harrison, Mike Graham, Robs Muir, Gib Lewis, Yvon Chouinard (fondatore di Patagonia), Douglas Tompkins (co-fondatore di The North Face), Bill Antel, Jim Hoagland, Tobin Sorenson, John Bachar, John Long e molti altri ancora.
E’ grazie a loro, a questo gruppo di giovani sud-californiani con i capelli schiariti dal sole, se oggi conosciamo l’arrampicata su roccia. Equipaggiati con strumentazione in parte auto-prodotta, scelsero come campo di azione le pareti della Yosemite Valley. Punto di ritrovo il leggendario Campo 4, dove, imparando gli uni dagli altri, sperimentavano nuove idee sulle pareti. Mentre altri, come Yvon Chouinard, producevano e vendevano attrezzatura nel parcheggio del campo, ponendo le basi per future aziende di successo.
Ma era sulla roccia che si consumava la Storia, quella con la S maiuscola. Perché di questo stiamo parlando: della storia dell’arrampicata. Il Naso, ad esempio, meglio noto come The Nose, è tuttora una delle vie più tecniche per salire in vetta a El Capitan, monolite granitico di 2307 metri che per molto tempo ha rappresentato una delle più popolari sfide di alpinismo estremo al mondo. El Cap ha due versanti principali: uno a sud-ovest e l’altro a sud-est. Tra le due facce si protende una prua imponente e, nonostante oggi ci siano numerosi percorsi su entrambi i lati, la via più popolare e storicamente famosa è The Nose, quella che segue appunto la linea del naso. Tanto per rendere l’idea, la prima ascensione al naso del Cap risale al 1958: Warren Harding, Wayne Merry e George Whitmore in tutto impiegarono 45 giorni per salire in vetta. La seconda, invece, compiuta nel 1960 da Royal Robbins, Joe Fitschen, Chuck Pratt e Tom Frost venne coperta in 7 giorni.
Per scendere entro le 24 ore bisogna aspettare il 1975: John Long, uno dei fondatori degli Stonemasters, assieme a Willy Westbay e Jim Bridwell arrampicherà The Nose in 17 ore e 45 minuti. Oggi il Naso attrae migliaia di scalatori da tutto il mondo: la percentuale di successo è del 60% e il tempo medio di ascesa è 2/3 giorni.
Le istantanee di quegli anni sono tantissime, raccolte dallo stesso John Long in un libro del 2009: The Stonemasters: California Rock Climbers in the Seventies. La più emblematica, però, resta quella scattata da Reinhard Karl che ritrae John Bachar mentre suona il sassofono, alla base di un blocco dove sta arrampicando Ron Kauk. E’ questo il simbolo del clima che si respirava a Yosemite negli anni ’70: aria di gioco, ma anche di rivoluzione.
Che dire di John Bachar? Mito, leggenda, visionario, artista. Ogni epiteto sarebbe riduttivo e superfluo. Solo una parola lo descrive al meglio: fuoriclasse. John era una delle anime degli Stonemasters, non credeva all’uso di chiodi o spit, aveva un approccio zen e si rifiutava di usare qualsiasi strumento che lasciasse un segno permanente sulla roccia. E’ stato uno dei primi a credere nell’allenamento a secco e nel bouldering, a praticarlo, arrivando poi a risultati stupefacenti. Arrivò nella Yosemite Valley all’inizio degli anni ’70, portando con sé soltanto un paio di scarponi, un sassofono e un fisico asciutto e atletico. Come già detto, in quel periodo gli stili di arrampicata su grandi pareti stavano cedendo il passo ad uno stile nuovo, conosciuto come free climbing, in cui i praticanti cercavano di limitare la strumentazione e dove l’uso di corde era previsto solo per protezione. John si distinse nella solitaria senza corda, di cui è stato un grandissimo interprete. Anche se la libera non esclude a priori l’utilizzo di attrezzatura (come corde e moschettoni), Bachar non ne fece mai uso, divenendo così il fiero pioniere del free solo. Tra le sue solitarie spiccano la salita nel 1976 di New Dimensions, il primo 5.11a dello Yosemite, Nabisco Wall (5.11c) e Butterballs (5.11c). Senza dimenticare il capolavoro del 1975, compiuto assieme a John Long e Ron Kauk: la via Astroman sulla Washington Column, la salita in libera considerata allora tra le più difficili al mondo. John Bachar, dopo aver scalato le pareti più vertiginose del pianeta, è morto il 5 luglio 2009 ai piedi del Dike Wall, vicino a Mammoth Lakes dove viveva.
Dopo la sua morte, si sono scatenate le polemiche: il fatto che il “migliore” fosse morto arrampicando proprio la roccia dietro casa, dimostrerebbe la pericolosità della disciplina. La realtà è che Bachar resta un’icona dell’etica alpinistica per il suo approccio purista ed ecologico, che l’aveva portato a condannare chi chioda le vie scendendo in doppia; resta un mito per il suo rigore nell’allenamento e nell’alimentazione, che l’aveva portato ad inventare l’omonima «scala Bachar»: appesa al soffitto, inclinata di circa 20 gradi, si percorre attaccandosi ai pioli con le mani ed è ancora oggi usata per allenare i muscoli delle braccia e della parte superiore del corpo. Resta immortale, perchè Bachar incarna l’essenza degli Stonemasters: un gruppo di giovani, che come tanti altri coetanei di quel periodo, decise di allontanarsi dalla tradizione, di staccarsi dalle convenzioni e di fare, a modo proprio, della controcultura.
E se non c’è certezza di quante siano le strade che un uomo debba percorrere prima di essere chiamato Uomo, di sicuro però c’è una cosa: quella degli Stonemasters è stata una via verticale.
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