Con queste parole inizia la canzone che Lucio Dalla, grande appassionato di Formula 1, dedicò ad Ayrton Senna dopo la sua morte nel Gran Premio di San Marino del 1994: un grande e compianto artista che a sua volta canta la scomparsa di un mito, di un eroe popolare. Perchè ad oltre vent’anni di distanza dalla sua morte, il ricordo, ma soprattutto l’assenza di Ayrton è ancora forte, tangibile, come se ciò che successe quel maledetto primo maggio fosse un evento appena accaduto. Io stesso, seppur appena dodicenne, conservo la memoria di quel pomeriggio come se fosse ieri: era una giornata calda, soleggiata, insomma una splendida giornata di primavera. Ricordo che stavo guardando il Gran Premio con mio papà e mio nonno quando, a un certo punto, avvenne lo schianto; repentino, inaspettato, in una curva – quella del Tamburello – dalla quale le monoposto escono in piena velocità. Ricordo la ripresa dall’alto, e poi silenzio, tanto silenzio, un silenzio quasi surreale, come se fosse dettato dal rispetto di fronte a quella che si intuiva essere una tragedia che travalicava i confini dello sport. La testa di Senna che sembra compiere un movimento impercettibile e poi i paramedici, le ambulanze, l’arrivo dell’elicottero. Quando arrivai a casa mi piazzai davanti al televideo in attesa di notizie dell’ultim’ora, un comunicato del tardo pomeriggio recitava il triste e definitivo responso: elettroencefalogramma piatto. La fine di un uomo e l’inizio di un mito.
Senna non fu semplicemente un campione, l’uomo più veloce del suo tempo (ben 65 pole in carriera), fu un personaggio a tutto tondo, con le sue fragilità, le sue paure, le sue incertezze: in una parola un essere umano, molto umano. Credo sia per questo che dopo tanto tempo parlare di lui faccia ancora venire il magone a tutti quelli che hanno avuto il privilegio di vederlo correre, ma anche e soprattutto a chi di quel circus che è sempre stato la Formula 1 ne ha fatto parte. Sarà per quel volto espressivo dal quale traspariva la sua anima, sarà per quell’espressione spesso triste e malinconica nonostante i successi e la gloria, sarà per quella modestia e abnegazione che lo contraddistinguevano prima di ogni gara ma Ayrton fu un personaggio fuori degli schemi.
Il Brasile lo amò più di qualsiasi altro personaggio sportivo o politico, lo elesse a eroe popolare, lì divenne un motivo di orgoglio nazionale. Per molti suoi connazionali fu un simbolo del riscatto di una nazione immensa, ricca di materie prime e possibilità, ma tremendamente povera e divisa per classi. Basta cercare un qualsiasi video sui suoi funerali a San Paolo per rendersi conto di quanto affetto lo circondasse nella sua patria. Senna a sua volta amò profondamente il suo paese, onorandolo sia da un punto di vista puramente sportivo, sia attivamente, devolvendo in beneficenza parte dei proventi della sua carriera da pilota. E’ stata la sorella Viviane a svelare, dopo la sua morte, le varie attività caritatevoli e le donazioni che il fratello tenne nascoste mentre era in vita. Nello stesso testamento erano contenute volontà circa somme da destinare a opere di beneficienza. Ayrton onorò il Brasile anche da un punto di vista sportivo, come accennato poc’anzi e lo fece alla sua maniera: con una vittoria entusiasmante, eroica, degna di un’epica sportiva che si è ormai persa da tempo. Nel 1991 dopo aver dominato la gara di Interlagos in lungo e in largo, si trovò costretto a percorrere gli ultimi giri potendo utilizzare solo la sesta marcia: il ritiro sarebbe stata la prassi più usuale. Ma Senna continuò, oltre la fatica, oltre la rabbia per una vittoria che stava per sfuggirgli di mano nel suo Brasile, dove non aveva mai vinto, liberando sotto la bandiera a scacchi in un urlo straziante tutto il suo dolore per l’incredibile sforzo fisico ma al tempo stesso tutta la sua immensa gioia per aver reso felice e fiera un’intera nazione.
Era fatto così. Non esistevano calcoli di punteggi o piazzamenti: contava solo la vittoria, sempre, ad ogni costo. Così diverso dal suo più grande rivale, Alain Prost, freddo, razionale, calcolatore, ben inserito nel circus della Formula 1 e nelle sue consuetudini e liturgie. Ayrton parlava sempre chiaro, esprimendo la sua idea anche quando sapeva di dar fastidio a chi quel carrozzone lo gestiva. Emblematico fu il finale di stagione del 1989 quando nel Gran Premio del Giappone lo scontro tra i due rivali per il titolo portò ad un incidente tra gli stessi, la cui responsabilità a tanti anni di distanza è forse da ascrivere a una chiusura molto anticipata di curva da parte di Prost. Prost finì lì la sua gara ma corse subito a parlare con il presidente della Fia dell’epoca Jean-Marie Balestre, suo amico. Senna potè continuare, rimontò col suo stile e vinse ma venne squalificato dai commissari di gara per aver saltato una chicane nel rientro in pista dopo l’incidente. Il mondiale andò a Prost. Senna visse quell’episodio come una ingiustizia ma, com’è risaputo, la vendetta è un piatto che si serve freddo, e l’anno dopo, sempre a Suzuka, si vendicò dell’affronto subito in precedenza. A parti invertite, causò l’incidente che buttò fuori Prost dal mondiale. Entrambi dovettero abbandonare la gara e questa volta a trionfare nel campionato del mondo fu lui. Ma Ayrton non era abituato a vincere in questo modo, la sua espressione alla fine della gara era triste, accigliata, non certo quella di chi ha appena vinto il mondiale piloti.
Senna fu anche e soprattutto l’ultimo pilota a trionfare con una macchina dove la componente elettronica non era preponderante. Dal 1992 le sospensioni attive introdotte dalla Williams diedero inizio a quella rivoluzione tecnologica che stravolgerà completamente la Formula 1 portandola a diventare, a mio avviso, estremamente noiosa e monotona. Al suo tempo la componente umana era fondamentale, la bravura e la capacità del pilota contavano enormemente – altrimenti da giovanissimo non avrebbe mai potuto compiere il miracolo sportivo che lo rese famoso al Gran Premio di Monaco del 1984: con una macchina decisamente poco competitiva, la Toleman, riuscì ad arrivare secondo rimontando diverse posizioni, fin quando la gara non fu sospesa per pioggia. Perchè quando iniziava a piovere, mentre gli altri piloti allentavano il piede dall’acceleratore lui invece lo spingeva a fondo, come fosse stato guidato da un sesto senso, da una mano esterna che lo proteggeva anche quando il pericolo aumentava e i rischi si moltiplicavano. Lui, religiosissimo, attribuiva le sue imprese all’aiuto di Dio. Io, uomo di decisamente poca – meglio dire nulla – fede attribuisco la sua innata capacità di guida a un talento smisurato e a una capacità di concentrazione quasi mistica.
A mio parere personale Senna ha rappresentato per l’automobilismo l’ultimo dei romantici, il “pilota” come ancora lo si concepiva un tempo, così come Baggio lo ha rappresentato per il calcio e Pantani per il ciclismo. Atleti umili nonostante l’immensa classe che li contraddistingueva, unici nel regalare ai tifosi pagine di vera epica sportiva, ma al tempo stesso fragili, problematici, umani, terribilmente umani.
Questo è il ricordo che di Senna porto dentro di me.
Ciao Ayrton.
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diego
Non posso esimermi dal commentare.
Gran bell’articolo!
Sembra ancora ieri…
Matteo Canepa
AuthorGrazie mille per i complimenti! È vero, sembra veramente ieri. Scrivendolo sono rimasto sorpreso da quanto nitido sia il ricordo di quel giorno, considerato il fatto che sono passati vent’anni. Ti rendi conto che il tempo vola senza quasi accorgersene. Matteo