L’inno nazionale cantato dal pubblico in delirio non si ricordava dalle olimpiadi di Australia del 1956, vinte da Ercole Baldini con gli emigranti italiani accorsi a supportarlo e ripagati con una vittoria: questa volta è toccato ai colombiani, che qui in Italia per quanto ne so io rappresentano solo una piccola parte della comunità latino-americana presente sul territorio. Ma quanto sono caldi!
Bisogna guardare gli occhi per vedere l’anima e per quanto siano parole retoriche, a volte non c’è modo migliore di spiegare una situazione. E’ bastato vedere gli occhi di Nairo Quintana, minuto vincitore di questo Giro d’Italia, ma soprattutto quelli di suo padre e sua madre per capire cosa significasse questa vittoria. E’ bastato vedere l’abbraccio fra il vincitore ed il secondo arrivato Rigoberto Uran, colombiano pure lui, per capire quanto orgoglio spinge le gambe di chi ha fame di vita, di vittoria e di rivalsa. La povertà fa male ed anche se questi ragazzi ormai si sono guadagnati un futuro agiato, certi segni rimangono.
Questa è gente che fra le parole romanzate e piene di passione di Alessandra De Stefano (presentatrice del Processo alla Tappa ndr) ha vissuto situazioni che nel mondo “occidentale” passano dritte per i servizi sociali: perché se il padre di Uran l’hanno ammazzato i narcos (non era il bersaglio, ma si trovò al posto sbagliato nel momento sbagliato), quello di Quintana è rimasto fortemente menomato da un incidente, tanto che nel suo ortofrutta le cassette le ha sempre caricate e scaricate Nairo fin dalla tenera età. Qui si chiama lavoro minorile, là si chiama sopravvivenza.
Comunque la storia più dura è quella di Uran: a parte la somiglianza incredibile con Mick Jagger e la brutta fine del padre, lo ricordo nel 2007, appena arrivato in Europa, finire lungo in una curva al Giro di Svizzera, saltare il guardrail e piantarsi dritto contro un masso in mezzo al letto del fiume. Aveva un braccio in frantumi e piangeva come un bambino, con la bici bianca abbandonata nell’acqua. Gli occhi questa volta erano specchio del terrore. Ecco, giusto per raccontare che questi colombiani non sono proprio dei bamboccioni e non è una sorpresa il fatto che abbiano successo in uno sport come il ciclismo, praticato in condizioni limite come in questa ultima edizione del Giro. Io che ho il riscaldamento autonomo e la mutua quando serve, credo non sarei così tenace.
Fabio Aru questa tenacia la ha avuta, forse perché anche lui di sacrifici ne ha fatti parecchi: non ha lavorato nei campi, ma quanti aerei ha preso per venire a gareggiare sulla terraferma contro i suoi coetanei più forti… E’ passato attraverso una delle scuole di ciclismo più dure, quella di Olivano Locatelli, uno dei più prolifici scopritori di talenti degli ultimi 25 anni: un sergente di ferro fra i più inflessibili. Chi ha corso con lui o è diventato un campione oppure ha segato in due la bici. In quel periodo Fabio non solo ha resistito alla pressione del suo maestro, il Nick Bollettieri del ciclismo, ma ha pure vinto il Giro della Valle d’Aosta che è la corsa dilettantistica più famosa ed importante oserei dire del mondo intero. Chi l’ha vinto non ha mai deluso le attese una volta passato professionista.
Il Giro della Toscana invece non l’ha vinto: era saldamente al comando anche in quell’occasione confermando di essere uno dei migliori dilettanti al mondo, se non che a 500 metri dal traguardo la sua bici si è rotta e lui è andato al traguardo di corsa. Ma non è bastato. Piangeva come Uran nel letto del fiume, negli occhi la rabbia al posto del terrore.
Aru ci ricorda tanto Pantani ed anche se mi mordo la lingua nel dirlo non posso farne a meno. Sarebbe più sano non mettergli fretta, lasciarlo maturare con calma e aspettare una naturale evoluzione dei suoi risultati: ma quando uno scatta in salita a quei modi come fai? Se ne è accorta pure la Gazzetta dello Sport che le prime pagine dedicate ai ciclisti (comprensibilmente) le dispensa con il contagocce.
Il podio è servito, il Giro è finito. Adesso si smontano le transenne, si salutano i compagni e si torna a casa il più in fretta possibile: chi in treno, chi in aereo, chi con la fidanzata che ha portato la macchina fino a Trieste. Restano la nostalgia e la voglia di ricominciare, tanto fra una settimana si penserà già alla prossima edizione. Storie comuni non ne vogliamo.
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