Racconteremo le storie di chi ha vissuto e vive con entusiasmo il proprio sport, trovando in esso giorno dopo giorno un valido alleato per essere felice o almeno esserlo un po’ di più.
La mia ossessione era una sola: chiudere la saracinesca del garage, inforcare la bicicletta e partire per l’allenamento in una fredda mattinata d’inverno. La mia magrezza esaltata da una mantellina infilata nella tasca posteriore, la testa fasciata in un berrettino di pile. Come i professionisti. Pensavo che partire così bardato nella nebbia di gennaio sarebbe stata la suprema rivincita nei confronti di tutto e di tutti, sarei stato realizzato.
Professionista: la prima parola appena sveglio e l’ultima prima di addormentarmi, per anni. Fare dello sport, del mio sport, un lavoro e costruire la mia vita intorno ad esso. Ricordo di non avere mai pensato al ciclismo come ad un divertimento perchè lo vedevo come una forma di riscatto sociale. Pedalo, ergo sum. Peccato (in realtà per fortuna) che dopo qualche anno di piccole glorie la mia strada si sarebbe rivelata ben diversa da quella del campione.
Ma torniamo agli albori: mi assale ancora quella sensazione dello sport vissuto come un’ossessione, una lotta continua per affermare se stessi. Soffrivo come un cane alle olimpiadi della parrocchia, durante le quali il mio entusiasmo si trasformava puntualmente in umiliazione: dei bambini agili e velocissimi mi lasciavano grassoccio e sudato in mezzo alla polvere del campo. Avrei dovuto già farmi una vaga idea del mio futuro nell’olimpo degli atleti ma non lo feci affatto. Non lo feci perché attorno a me vedevo solo campioni e mi dispiace molto sparlare del calcio, perché lo fanno tutti i ciclisti frustrati, però girava tutto intorno a quello: erano tutti piccoli campioni. Avrò avuto i paraocchi ma non ricordo genitori parlare del futuro scolastico-professionale dei loro figli. Sentivo parlare di allenatori, polemiche, provini. Il Genoa, la Samp. L’onta della domenica in panchina, massima umiliazione per il calciatore e la sua famiglia. Palleggio, ego sum. Ma se segno è meglio. Per non essere da meno feci di tutto per entrare a far parte di una squadra satellite della Mapei (lo sponsor poi uscì dal ciclismo, ma in quella squadra ci andai comunque). Poi fu Liquigas, in quelle scritte sul petto tutto il mio orgoglio. Nessuno ci aveva spiegato, ne’ lo aveva spiegato ai nostri genitori, che lo sport doveva essere importante, sì, ma che il mondo poteva giare comunque intorno anche ad altro. Sana ingenuità, incoscienza o semplicemente gioventù, però a distanza di anni trovo tremendamente diseducativo aver creduto che una foto sulla Gazzetta avrebbe dato un senso alla mia vita.
Piovevano le giustificazione per i compiti, saltati in favore degli allenamenti. Allenamenti sempre e comunque: vitamine di tutti i tipi, inutili quintali di Supradyn e conseguente pipì fosforescente. Ma ricordo anche dei Maradona di dodici anni sottoposti a infiltrazioni, guai a saltare un palleggio, magari c’è un osservatore. Dirigenti delle squadrette di paese osannati come divinità nei tornei estivi, vecchi sportivi frequentati come santoni taumaturghi. Mai e poi mai si poteva perdere l’attimo, ogni giorno poteva essere decisivo per diventare campioni. Nel mio paese ci sono tuttora calciatori di poco valore che fanno le star con i pantaloni della tuta e la borsa a tracolla mentre svariate eccellenze professionali di successo non solo nazionale restano tranquillamente sconosciuti. Ma non usciamo dal binario.
Ho scoperto negli anni che i ragazzini più bravi si divertivano di più e si allenavano di meno, magari non conoscevano la storia del loro sport ma sapevano a memoria i nomi dei compagni e quelli dei loro genitori, che non mancavano mai di salutare. E’ qui che entra il gioco il doping, ma non ne faremo una mera questione chimico-farmaceutica: doping è tutto quello che altera una prestazione e, nel caso sportivo, la verità. Possiamo discutere ore ed ore su quanto sia diffuso, come si pratichi, in quali sport sia più radicato e per quale motivo chi vuole avere successo nel proprio ambito rischi di trovarcisi a che fare. Eviterò anche di fare di nuovo la parte del ciclista frustrato e quindi non difenderò a spada tratta uno sport con un passato (sia semplice che remoto) tanto poco difendibile quanto difficilmente comprensibile.
Infilarsi un ago in una vena non è doping, semmai una conseguenza: doping è non riconoscere le proprie possibilità e cercare a tutti i costi una strada alla quale non si è destinati. Doping è educare un bambino inculcandogli che l’unica via per una vita dignitosa e gratificante sarà essere uno sportivo professionista. Doping sono tutte quelle situazioni grottesche di cui parlavo prima, abusi di medicine e integratori o più semplicemente colorite abitudini di cui non si capisce la gravità fino a che le cose non degenerano.
Il doping più grave a livello giovanile consiste nel non riconoscere i limiti di un individuo, andando a finire in quello che forse è l’apice della diseducazione dell’atleta e della persona: attribuire i successi altrui all’inganno e non al merito. Oltre a scatenare le più nefaste conseguenze in fatto di istigazione alla frode, credo che non essere coerenti nei confronti di un ragazzino sia la peggiore mancanza di rispetto alla sua dignità: non solo lo si pone in malafede nei confronti del prossimo, ma peggio ancora lo si altera nella consapevolezza di se stesso.
La sconfitta sportiva non è un’umiliazione e nemmeno un’ipoteca sul futuro: è una grandissima occasione per capirsi e migliorarsi, oppure cambiare strada. Nella vita c’è anche altro. Mai dimenticherò la franchezza con cui un mio dirigente molto lungimirante mi mise davanti alla verità: avevo gareggiato per anni, sognato, pianto e gioito, avevo conosciuto le corse ed i campioni del futuro che un domani avrei potuto raccontare. Non era il caso di andare avanti e perdere opportunità di vita e di lavoro per inseguire un sogno che non si sarebbe mai avverato: mancavano sia il fisico che la motivazione.
Non parlammo di doping, perché non era affatto quello il punto e comunque non ebbi mai il problema di doverlo eventualmente scoprire. Semplicemente non ero fatto per quella professione. Parlammo di futuro e speranze, di sogni e amore per lo sport: quel giorno, era il 2 maggio 2007,quel signore fece in modo che la bicicletta non mi abbandonasse per il resto della mia vita, proteggendomi dal rancore e dalla nausea che provano quelli che non affrontano la realtà e si ostinano a volere un futuro che madre natura non ha previsto per loro.
Se non avessi ascoltato quella sincera chiacchierata sarei andato avanti a testa bassa, contro tutto e contro tutti: avrei cercato un medico e non avrei avuto problemi a barare, credendo di fare della mia vita qualcosa di migliore, perché per me lo sport era tutto, tranne che un divertimento. Non solo avrei mentito a me stesso, ma avrei fatto del male a tutti quei ragazzi più dotati di me che facevano sport in maniera sana e genuina, costringendo anche loro al peggio.
E’ questo il doping: alla fine ci rimettono i campioni, perché gli altri non sanno affrontare la realtà (non li obbliga nessuno nemmeno a loro, chiaro, ma ne parleremo casomai un’altra volta).
Comunque non essendo distruttori ne’ pessimisti continueremo a raccontare i nostri eroi e le loro gesta, perché è di questo che ci occupiamo ed è questo che scegliamo di fare per passione ogni giorno, senza però dimenticarci di raccogliere e diffondere le esperienze di chi ce l’ha fatta in modo diverso, divertendosi senza ossessionarsi: abbiamo iniziato con la bella (bellissima) favola di Francesco Bolla e continueremo con Gabriele Manfredi, vulcanico ex ciclista dal sorriso inossidabile. Proseguiremo volentieri con tutte le storie belle e possibili che scopriremo, di chi ha scelto di vivere lo sport dandogli il peso che si merita: la leggerezza della felicità.
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michela bisio
Una bellissima riflessione,specialmente per noi genitori che abbiamo l’obbligo del buonsenso!