“L’eternità in un attimo”. Creare un quadro compositivo perfetto, totalizzante ma al tempo stesso essenziale della realtà che abbiamo di fronte ma che non siamo in grado di comporre pienamente a causa della brevità quasi inconsistente del suo essere. Questa è stata l’intuizione e il fine ultimo di uno dei più grandi fotografi di ogni tempo: Henry Cartier-Bresson. Colui che insieme all’ amico e collega Robert Capa, fotografo e persona di una umanità commovente, ha posto le basi per il foto-giornalismo moderno e per il reportage attraverso la fondazione della agenzia fotografica Magnum, con la quale hanno collaborato i più importanti fotografi del secondo dopoguerra.
Entrambi hanno lasciato un segno indelebile con scatti che hanno fatto e continuano a fare il giro del mondo a causa della loro immortalità. Entrambi non sono certamente stati dei veri e propri fotografi sportivi in senso stretto, anche se, all’interno della loro vastissima eredità fotografica ci hanno lasciato immagini di eventi sportivi documentati con uno sguardo indagatore che spazia oltre la cronaca sportiva pura e semplice. Capa ha seguito e documentato il Tour de France del 1939, sia da un punto di vista propriamente sportivo che come fenomeno di massa, col suo seguito di tifosi. Quel Tour fu vinto dal belga Sylvère Maes, l’ultimo Tour prima che in Europa si spegnessero le luci a causa della seconda guerra mondiale.
Ho scelto di partire volutamente da Capa e Bresson perchè questo pezzo non vuol essere una cronologia pura e semplice dell’evoluzione della fotografia applicata allo sport, ma un semplice omaggio, seppur parziale e sicuramente insufficiente all’incontro di due arti e al connubio indissolubile che le lega ancora oggi. Cosa c’è di più artistico di un corpo umano proteso nello sforzo di compiere un gesto atletico? Andatevi a vedere le foto di Muhammad Alì – nato Cassius Clay – durante i suoi incontri. Le foto di una danza sul ring che di colpo si tramuta in una tempesta di violenza con la rapidità di un flash. Ma nello stesso tempo il significato simbolico delle foto che ritraggono le vittorie di Alì trascende il puro dato artistico-sportivo, assumendo il valore simbolico del riscatto dei neri d’America in un momento in cui la rabbia derivante dall’intolleranza non può può più essere fermata.
Per dimostrare come spesso l’arte possa fondersi con la simbologia sportiva basta citare la rielaborazione che dell’immagine di Muhammad Alì compie Andy Warhol: l’arte visiva trasforma un’icona sportiva facendola diventare un mito.
Stiamo parlando di anni in cui la tensione razziale negli Stati Uniti è fortissima, gli anni del Black Power, di Martin Luther King e delle Pantere Nere. E allora come non ricordare la celeberrima foto del podio della finale dei 200 metri piani alle Olimpiadi di Città del Messico del 1968. La foto che ritrae i due atleti di colore statunitensi Tommie Smith e John Carlos, rispettivamente medaglia d’oro e di bronzo, con i pugni alzati nei guanti neri (simbolo del black power), una collana di pietre al collo (ogni pietra rappresenta un afroamericano ucciso perchè difendeva i suoi diritti di essere umano) e i piedi scalzi in segno di povertà. Questa foto ebbe all’epoca un impatto sociale e politico enorme nell’ambito della sensibilizzazione dell’opinione pubblica circa i diritti e le giuste rivendicazioni degli afroamericani, nello stesso anno dell’assassino di Martin Luther King.
Ma la foto racconta solo una parte della storia perchè la carriera dei due atleti all’indomani di quel gesto fortissimo sarà finita per sempre: verranno cacciati dai giochi olimpici subito dopo e in patria subiranno un vero e proprio calvario. Sorte non molto migliore toccherà al terzo personaggio della foto, Peter Norman, sprinter australiano e medaglia d’argento, il quale, in segno di solidarietà con i due atleti americani, si fa consegnare una coccarda della loro associazione e la sistema in bella evidenza sulla tuta. Verrà anche lui ostracizzato dalla federazione australiana e salterà le olimpiadi di Monaco 1972. Vedete? Questa foto merita da sola un articolo, per tutto quello che ha rappresentato e per come ha modificato in maniera indelebile la vita dei suoi protagonisti.
C’è da dire che la fotografia sportiva ha subito e in alcuni casi preceduto l’evoluzione dei periodi storici e dei loro risvolti sociali e politici. Nata agli albori come rappresentazione di pose statuarie da parte degli atleti, in un periodo (fine ‘800) in cui lo sport aveva una chiara connotazione dilettantistica di attività ricreativa da compiersi all’aria aperta, si può secondo me fissare una data in cui una foto di un evento sportivo diventa icona e leggenda al tempo stesso, diffondendo l’idea di sport alle masse: sto parlando dello scatto che ritrae, alle Olimpiadi di Londra del 1908, il maratoneta italiano Dorando Pietri, mentre stremato e trasfigurato dalla fatica taglia per primo il traguardo. Pietri viene subito dopo squalificato poichè è stato in precedenza assistito a causa della stanchezza da alcuni ufficiali di gara. Vince a tavolino il secondo classificato John Hayes, ma per tutti il vincitore morale resterà per sempre l’eroe immortalato in quell’immagine: Dorando Pietri.
In alcune epoche storiche però, come gli anni Trenta del secolo scorso, il legame tra sport e fotografia (anche cinematografia) verrà utilizzato, o almeno si tenterà di farlo, come instrumentum regni delle dittature e dei regimi totalitari europei. Si pensi alla propaganda di stato operante nelle Olimpiadi organizzate dai nazisti nel 1936 a Berlino, all’opera visiva della fotografa-cinematografa tedesca Leni Riefenstahl “Olympia“, volta all’esaltazione dell’armonia e della perfezione dei corpi degli atleti, membri di quella assurda visione della aberrante società che sarebbe dovuta sorgere col “nuovo ordine” voluto dal fuhrer. Ironia della sorte quelle Olimpiadi rimarranno nella storia per le immagini che ritraggono l’immenso velocista afroamericano Jesse Owens, vincitore di ben 4 ori sotto gli occhi esterrefatti di Hitler e gerarchi.
Se penso al ruolo dello sport come propaganda mi torna subito alla mente anche la foto che ritrae il generale argentino Videla, capo della giunta militare che terrorizzò l’Argentina tra il 1976 e il 1983 mentre tronfio e al colmo dell’arroganza solleva la Coppa del Mondo di calcio nel 1978.
E oggi? L’avvento della televisione e la sua completa copertura mediatica di quasi tutti gli eventi sportivi ha fatto si che i fotografi sportivi, categoria ormai a se stante, con i loro potenti teleobiettivi, si siano focalizzati soprattutto nella ricerca della fotografia esteticamente perfetta, dal momento che il puro resoconto cronachistico è coperto in massima parte dalla televisione. Le immagini dei grandi eventi sportivi odierni sono foto esteticamente bellissime, senza sbavature, che spesso vengono poi rielaborate e utilizzate per dar vita a campagne pubblicitarie: la fotografia sportiva ha saputo evolversi e andare di pari passo con i tempi attuali, nei quali le immagini dei grandi campioni sono utilizzate per sponsorizzare questo o quel prodotto.
Andate a farvi un giro sul sito della agenzia fotografica americana Getty Images, un colosso che vende immagini a fini commerciali e ai media di tutto il mondo e troverete foto magnifiche di qualsiasi evento sportivo di rilevanza internazionale.
Il fotografo di sport è diventato un artista, un prestigiatore, in qualche maniera un manipolatore in grado di mutare il significato di una stessa situazione in base all’angolazione, alla profondità di campo e la sfocatura di una immagine. Prendete ad esempio la foto del fotografo Steve Powell che ritrae al mondiale di Spagna del 1982 Maradona in azione nella partita giocata dall’Argentina contro il Belgio: sembra che Maradona stia giocando da solo contro il Belgio e che più della metà della squadra belga stia cercando di fermarlo in ogni modo, ma l’esito della disfida pare già scontato, poichè “el pibe de oro” dribblerà chiunque si trovi sulla sua strada. Tutto ciò sembra plausibile poichè si tratta di un’icona, Maradona è unico. Fosse una foto tratta dal campionato di Lega Pro (con tutto il rispetto) non avrebbe lo stesso impatto sull’osservatore.
Tutte queste implicazioni tra la fotografia e lo sport però non devono far dimenticare tutti quei soggetti, appassionati, tifosi, simpatizzanti che con il loro calore e la loro presenza fanno si che l’evento sportivo diventi qualcosa di magico ed è per questo che voglio lasciarvi con una foto dell’altro lato della meraviglia dello sport: il pubblico
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Maria
Bravo Matte
Matteo Canepa
AuthorGrazie Mary!
michelangelo
bellissimo articolo, complimenti Matteo! Io sono un fotografo food(michelangeloconvertino.it) di professione e non mi occupo di questo settore ma amo lo sport e quindi il tuo articolo mi ha coinvolto tanto! Ogni cosa che ha a che fare con la fotografia mi interessa ed è bello leggere articoli cosi!