Come molti in Italia, ho ricevuto un’educazione cattolica. E forse, incosciamente, è proprio questo il motivo per cui ho scelto di correre. Il senso di colpa, l’almanacco di sfumature che ruota attorno alla crocifissione, la sofferenza come espiazione, la vita oltre. Insomma le analogie ci sono, ma anche no. Direi.
Quando corro non cerco la pena. Anzi, se possibile cerco di scamparmela: metto un passo cauto e se necessario vado anche con il freno a mano. Il mio obiettivo è arrivare in fondo. Nonostante tutto. Non sono un fan dell’etica del sacrificio, ma correre mi ha insegnato a sopportare il dolore. Ecco: sopportare, non amare. Non cerco qualcosa che mi induca sofferenza, ma se arriva cerco di gestirla, di affrontarla. Fare paragoni con la vita sarebbe troppo facile, però la corsa è lo sport che più mi ha insegnato a gestire la fatica (assieme al nuoto). E ripeto gestire, non cercare. Sport individuali, solitari, ma con una capacità di relazionarsi al prossimo del tutto peculiare: in mare aperto o durante la corsa, ad esempio, ho superato diversi momenti di crisi grazie all’aiuto di altri atleti. Chi mi spaccava l’onda, chi mi faceva il passo. E questo per dire che non si è mai veramente soli. Neanche quando si è sicuri di esserlo.
Quando però metto le braccia in acqua o faccio partire il cronometro, la testa si sincronizza solo su me stesso. Sarà anche egoistico, ma ci sono solo io con me. Chi legge è legittimato a percularmi, ma correndo o nuotando ho conosciuto me stesso. O meglio, sto ancora imparando a farlo veramente. E non è una questione di limiti, quelli li lascio ai claim delle pubblicità. Per me correre è diventato qualcosa di filosofico, quasi esistenziale, uno strumento di psicoanalisi. Ma infinitamente meno costoso di uno strizzacervelli.
Pochi giorni fa ho corso la mia prima mezza maratona e i momenti di difficoltà, in questi mesi, sono stati tanti. Ho conosciuto ciò che non sopporto e a cui mai mi abituerò, ciò che ho sempre temuto e scansato in 33 anni (per legittimo spirito di autoconservazione): il dolore. Lo ripeto: quando corro non cerco l’espiazione, ma la sofferenza, puntualmente, mi raggiunge ad ogni corsa. Sempre.
E allora ho fatto quello che gli essere umani sanno fare meglio: adattarsi. Ho accettato la sofferenza, ne ho fatto strumento di indagine personale e ho scoperto che anche io so sopportare. Passo dopo passo sto trovando la mia uscita e ad ogni corsa mi avvicino un pò più a me stesso. E udite udite, ogni tanto provo anche un appagante senso di pace.
Celine scriveva che nella vita forse si cerca la maggior pena possibile per diventare se stessi prima di morire. Io per il momento mi accontento di correre la Mezza assieme al mio socio Alessandro.
E a bere birra.
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