Avellaneda, 15 Dicembre 2014.
Le mie lacrime di gioia sono incontenibili. Abbiamo vinto, siamo campioni. Sulle tribune del Cilindro è il delirio più totale: urla, cori, gente che batte le mani, gente che non riesce ancora a capire quello che è realmente successo. Il nostro Diego Milito ci ha trascinato fino alla vittoria del campionato e, molto probabilmente, fino alla fine di un incubo. Mi ricordo tutto, tutti i particolari, con una lucidità che ancora oggi mi spaventa anche se erano 47 anni fa ed ero un ragazzo. Oggi forse, ci siamo liberati l’animo dalla maledizione dei sette gatti neri. Adesso siamo una squadra che ritorna a vincere. Io, invece, non ho ancora perdonato mio padre e forse non lo farò mai. Perché il calcio, soprattutto in Argentina, è una cosa seria.
Avellaneda, 4 Novembre 1967.
Quando arrivi ad Avellaneda puoi pensare solo a due cose: la prima è che siamo davvero in un luogo strano, atipico e molto povero, case basse e piccole botteghe che sanno di preistoria. La seconda è per che squadra di calcio tifare. Semplice, molto semplice. Per un ragazzino nato in Argentina ma di sangue italiano, mi chiamo Horacio Grondona e sono figlio di generazioni di immigrati, il calcio è questione di vita o di vita. La cosa complicata è che se abiti a pochi passi dallo stadio è davvero un dilemma e il tutto può diventare questione di morte o di morte qui ad Avellaneda. Perché? Abito a 500 metri dallo stadio dell’Independiente, La Doble Visera; e a 500 metri dallo stadio del Racing Avellaneda, El Cilindro. I due templi del calcio di Avellaneda si guardano, costruiti proprio uno di fronte all’altro. Simili per lo scopo, opposti nello stile architettonico. Papà, Antonio Diego Grondona, lavora come magazziniere al Cilindro ma è un tifoso appassionato dell’Independiente; gli strani casi della vita. Provate ad immaginare la mia confusione, devo scegliere tra l’Alfa e l’Omega e sono solo un ragazzino. Scelgo il Racing Avellaneda: giocano meglio, sono più forti, vengono chiamati l’Academia e posso entrare allo stadio a vederla quando voglio, perché papà ha le chiavi di una porta di servizio.
La sera del 4 Novembre, la pioggia è sottile e innocua, e a Montevideo, il Racing Avellaneda, sta disputando lo spareggio per la conquista della Coppa Intercontinentale contro il Celtic Glasgow. I tifosi dell’Academia rimasti ad Avellaneda si sono radunati a gruppi di otto, dieci, venti persone nelle case di chi possiede una radio. In case in cui si vive a malapena in quattro o cinque già stretti. Il sudore della tensione e il puzzo di piscio, provocato dalla troppa birra ingollata, fanno da cornice alla scena fùtbologica. I tifosi dell’Independiente non si vedono in giro da giorni, sono tutti rintanati nelle loro case a tifare Celtic sperando di far festa per un’eventuale sconfitta del Racing. Poco prima del calcio d’inizio papà mi dice di andare con lui, non vale la pena seguire il Racing, squadra di fighette, devo dargli una mano in una faccenda di lavoro. Ma come, c’è la finale della Coppa Intercontinentale, lo stadio del Racing è deserto, e lui deve lavorare? Ma Don Antonio è padre risoluto, prendo una mantella e vado con lui, non ho scelta. Davanti allo stadio, accovacciati nell’ombra, ci sono sette uomini vestiti di buio come se fossero ladri. Ed ognuno di loro ha un sacco sulle spalle. Mio padre ha con sé due pale. Faccio davvero fatica a capire quello che sta succedendo. Papà mi dice di stare di guardia alla porta e, se succede qualcosa di anomalo, gridare il nome Josè. Lui entra nello stadio con le ombre. E io non ho sue notizie per circa un’ora e un quarto. Penso che molto probabilmente stanno ascoltando alla radio la partita, tifando Celtic, fumando e bevendo nervosamente, ma non mi spiego allora a che gli servono le pale. Escono dalla porta dello stadio tutti trafelati a pochi minuti dalla fine della partita. Papà saluta quelle ombre nere che si dissolvono nell’oscurità senza lasciare traccia. Corriamo velocemente a casa e facciamo in tempo ad arrivare per scoprire che il Racing è campione del mondo, trionfante ancora una volta. Sono felice, sento il profumo dei noccioli più intenso del puzzo di piscio, sento i cori dei tifosi del Racing. Piango di una gioia calcistica meravigliosa. Don Antonio Grondona è stranamente tranquillo. Sa che quello che ha fatto insieme ai suoi amici, gli uomini vestiti di nero con quei sette sacchi sulle spalle, sarà per sempre la sventura del Racing Avellaneda. Nella sua testa, Don Antonio, sa che quei sette gatti neri, sotterrati in varie parti del campo saranno la maledizione leggendaria dell’Academia che lui stesso ha pianificato e che ha messo in atto insieme ai suoi amici manigoldi tifosi dei Diablos Rojos dell’Independiente.
La storia non si sa ancora oggi se sia mito, leggenda o realtà. A me piace pensare che al Cilindro, domenica, ci sia stato un vecchio Horacio e abbia pianto di gioia. Magari non solo per la vittoria del campionato ma anche per il ricordo del papà traditore Don Antonio Diego Grondona. I nomi sono frutto di fantasia. La storia è leggenda di fùtbol.
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