Ci sono le gare su pista, velocissime, contro avversari, cronometro e una lingua di asfalto ben precisa. Ci sono le gare su strada, velocissime e pericolosissime. Le endurance tipo la famosa gara a Suzuka. Ci sono le gare di motocross outdoor e quelle indoor. Poi ci sono le gare di enduro, piene di rebus ed incognite naturali. Le gare di motoalpinismo e di trial, tecniche e da equilibristi.
Poi c’è la Dakar. Per sua natura una delle gare più estreme se non LA più estrema. Tappe giornaliere composte anche da migliaia di km tra deserti, saline, sterrato e ogni insidia possibile e immaginabile degna del miglior documentario. Impressive, per usare un termine anglofono.
Dalla sua nascita la Dakar ha cambiato volto, è mutata camaleonticamente dagli albori, conosciuta anche come Parigi-Dakar finendo con la versione attuale che la vuole destreggiarsi tra i meravigliosi scenari del Sud America. Dalla prima edizione del 1979, voluta dal “fondatore” francese Thierry Sabine innumerevoli sono stati coloro che si sono cimentati e molti quelli che hanno perso la vita sfidando la natura. Ricordo le parole del professore del corso di Antropologia all’università, il quale, per spiegarci il concetto secondo il quale non esistono popoli più o meno avanzati ma più o meno organizzati ci disse: “Se dovessero catapultarmi nel deserto o al Polo non impiegherei molto a capire di non avere scampo.”
Sono molti i personaggi talvolta famosi che si mettono alla prova, basti pensare che nel 1982 prese parte anche il figlio della Iron Lady, Mark Thatcher, il quale addirittura si perse nel deserto costringendo la stessa madre a intervenire. Una forza militare algerina lo ritrovò 5 giorni dopo. Personaggio eccentrico, per certi versi “strambo” che fece arrossire la madre e relativo entourage per certe sue dichiarazioni o scelte discutibili, come quando contravvenne alla regola di stampo materno di non promuovere prodotti esteri al fine di fare pubblicità a un’azienda manifatturiera del sol levante per ricavarne introiti da utilizzare per la sua carriera di pilota.
L’edizione di quest’anno ha confermato la nomea di gara ad eliminazione: oltre il 50% delle moto partecipanti ha dovuto abbandonare a causa di problemi tecnici. Per le moto ha trionfato per la quinta volta il catalano Marc Coma mentre per le auto ha bissato il successo ottenuto nel 2011 il qatariota Nasser Al-Attiyah, personaggio particolarissimo, pilota e tiratore di skeet già visto anche alle olimpiadi di Atene 2004 e Londra 2012, nonché portabandiera per il Qatar nell’edizione di Pechino 2008. Hanno superato tutte le insidie possibili a partire dalla tappa nel deserto del Salar, in Bolivia. Questo è stato un vero e proprio flagello: acqua e sale hanno letteralmente fatto a pezzi le componenti meccaniche di moltissimi equipaggi, costretti al ritiro e a una pioggia di critiche successive in quanto le condizioni, per le due ruote, erano davvero troppo estreme. Alessandro Botturi ha dovuto abbandonare la moto proprio a causa del salino.
Prima del deserto del Salar una selezione è stata fatta dal Deserto di Atacama, dove il temibile fesh fesh gioca a insinuarsi tra i mezzi e lo spirito di resistenza. Questa sabbia ultrafine, quasi della consistenza del talco, esplode al passaggio di un mezzo su di sé, avvolgendo in una nube di aria irrespirabile chiunque sia in un breve raggio. Alla vista spesso appare consistente ma il più delle volte cela delle insidie (buche, ndr) di cui ti accorgi solo quando ormai è troppo tardi. Quando il fesh fesh si alza sotto forma di nube compromette la visibilità e uno dei primi sensi umani a saltare è quello dell’orientamento. Ma l’Atacama è anche un luogo di cinica riflessione interiore. A livello biologico è il deserto più arido del mondo, ci basti pensare che viene utilizzato come campo di sperimentazione per le missioni su Marte, in quanto molto simile al paesaggio privo di acqua del pianeta rosso. Un breve articolo di Piero Batini apparso sulla rivista online automoto.it illustra l’importanza socio-economica di un posto così arido nella cultura degli autoctoni e lo fa attraverso le bellissime parole di un vero natìo del luogo, il poeta Hernan Rivera Letelier, che proprio lì è nato, cresciuto e ha lavorato nelle miniere di sodanitro, un elemento utilizzato nella metallurgia in tutto il mondo. La coesione tra le persone in comunità è molto più forte laddove ci si trovi ad affrontare elementi naturali estremi e non ci sono modi migliori per spiegarlo se non attraverso le parole che il poeta cileno ha regalato a Batini: “Il Desierto di Atacama è la mia anima, è la mia origine. È un Deserto che ha dato molto e continua a dare moltissimo al Paese. Continua a dare vita al Cile. La ricchezza del Paese nasce dal Deserto. La ricchezza di Santiago nasce qui. Vivo in città, ma sono cresciuto in questo Deserto. Chi vi nasce non lo lascia mai, e chi se ne allontana vive con il Desierto dentro, con il suo silenzio, la sua solitudine.
Mi piace molto la solitudine, mi piace il silenzio, e il Desierto del silenzio e della solitudine mi accompagna dovunque vado. Abito in città, ma non ho mai smesso di essere nel Deserto.
Il Venditore di Passeri, il mio ultimo romanzo, l’ho finito di scrivere nel luglio scorso, ed è ancora una storia del Deserto di Atacama. Tutti miei romanzi sono storie del Deserto, solo adesso sto per cimentarmi in una storia poliziesca. Sei qui per la Dakar? Ne ho sentito parlare, ma non la conosco, non sono appassionato di Sport, di corse, non so neanche guidare. Da bambini giocavamo con una palla di carta, poi niente altro. È puro denaro? È come il football? Ventidue multimilionari che rincorrono una palla? C’è passione?”. Viscerale e duro come quei luoghi e momenti che non riusciremo mai a capire fino in fondo nonostante li si attraversi ma non li si viva.
Credit Image: Rod Hunt
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