Non per fare dell’etnologia spicciola, ma c’è popolo e popolo. Prendete uno scozzese e mettetelo vicino a un inglese. Vi sembrano uguali? É chiaro che non si sta parlando di valori morali – nessuno dei due è superiore all’altro – e neppure di qualità intellettuali da porre su un righello centimetrato e da misurare come si fa con l’altezza. Ci si riferisce alle caratteristiche “di genere” che ognuno (meno male) conserva. E che – nella fattispecie – rendono inglesi e scozzesi piuttosto diversi tra loro. A questo proposito – e a titolo definitivo – valga quanto scriveva Robert Louis Stevenson in Memories and portrait (1887): “Il discorso di un inglese è troppo spesso mancante di generoso ardore (…) uno scozzese invece si interessa degli altri, è avido di simpatia e mostra i suoi pensieri nella luce migliore”.
Diversi, appunto. Uno è piuma, l’altro “fero”.
Ora, per divertimento, giochiamo alla fanta-letteratura e proviamo a immaginare una pagina di Stevenson sul derby tra Ternana e Perugia che si giocherà sabato. Sì, perché – finite, almeno in Occidente (pare), le divisioni sulle grandi questioni – è proprio nel calcio che questa etnologia spicciola viene esercitata. Al grande romanziere scozzese, al di là di una certa forma di omologazione nei comportamenti, non sarebbe certamente sfuggito un fatto evidente: il tifoso proveniente dalla parte destra del Tevere non può essere assimilato ad uno della sponda opposta. Il primo, per dirla à la Stevenson, “conduce una vita quasi teatrale”, il secondo “sente molto parlare di montagne coperte di eriche”. Non esattamente lo stesso approccio alla vita, diciamo.
È per questo che – a proposito di teatro – quando qualche tempo fa ho ascoltato un’intervista di Filippo Timi a Le Invasioni barbariche mi è venuto da sorridere. Diceva – il bravo ed esteticamente gradevole attore perugino – un po’ sul serio un po’ no, che ogni tanto gli capitava di sorprendersi a parlare “in umbro” (proprio così: “in umbro”). E affermava – quasi recitando – che quel dialetto “gli tornava su, dalla pancia, con un’ancestrale ferinità”. Ma pensa te! Il ribollire delle radici profonde, vere, senza mediazione. Come minimo, se Daria Bignardi avesse sentito parlare il compianto Tonino da Terni, gli avrebbe dato una bella pacca sulla spalla e una passata di cipria sulle guance, a Filippo Timi. Perché si fa presto a dire “ancestrale ferinità”: fera, da un punto di vista di cultura popolare umbra, è un’altra cosa. Le differenze – Timi dovrebbe saperlo (e anche il loquace e un po’ “teatrale” presidente del Perugia, Massimiliano Santopadre) – vanno sottolineate con precisione. Perché arricchiscono e perché connotano uno spirito, una visione del mondo, una capacità di relazione. Certo, non bisogna farne un feticcio, altrimenti diventano una gabbia. E, come tutte le gabbie, finiscono per succhiare via la voglia di scoprire, di mettersi in gioco, in una parola la pulsione ad evolversi. Sapere però che – al netto di quanto succederà nel prossimo derby – un ternano potrà sempre andarsene in giro per il mondo come “un contadino scozzese che non vi confonderà con chiacchiere tanto per far conversazione e che vi darà il meglio di se stesso, come un uomo che ha interesse per la vita”, è una cosa che scalda il cuore.
E comunque, in ultima analisi, l’erica è rossa e le montagne coperte di felci sono verdi. Punto.
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