Prypiat_stadium

Chernobyl

I giocatori in campo sono senz’altro più di 22. D’altra parte è difficile contarli, ravvicinati e vestiti di una diversa sfumatura di verde. Betulle e pioppi si affrontano ormai da anni, chiusi dal battistrada di una crepata e scolorita pista d’atletica. Da quando è esploso un reattore della centrale nucleare che dava lavoro a buona parte della sua popolazione, la cittadina di Pripyat, nata nel 1970 all’ombra di Chernobyl, è stata evacuata. Il suo campo sportivo non ha più visto gambe correre e calciare palloni.

Sono stati organizzati pullman per sfollarla in fretta e furia: è diventata una città fantasma, “zona di alienazione”. “Compagni, lasciando temporaneamente le vostre case, non dimenticate per favore di chiudere le finestre, di spegnere tutte le apparecchiature elettriche ed a gas e di chiudere l’acqua. Si prega di mantenere la calma, l’ordine e la disciplina durante lo svolgimento di questa temporanea evacuazione!”. L’urlo metallico di una altoparlante aveva chiamato l’attenzione di circa 50.000 persone. Era il 27 aprile del 1986, 36 ore prima s’erano udite diverse esplosioni provenire dalla vicina centrale.

Ovviamente nessuno è tornato da allora. Negli anni gli unici ad avere accesso sono stati i tecnici e gli operai che si occupavano della bonifica e, più recentemente, turisti e amanti delle catastrofi. Lo scenario post-apocalittico nucleare non ha mancato di ispirare ambientazioni per film e videogiochi. La realtà ha mantenuto negli anni parte della radioattività ricevuta: la natura, come sempre, ha reagito, abbracciando le costruzioni con rigogliosa vegetazione.

Alle porte di Pripyat, un cartello di “Pericolo radiazioni” avverte della cosiddetta Foresta rossa, pineta che la contaminazione ha colorato di un rosso bruno. “Non accarezzate il muschio!”, viene detto esplicitamente ai visitatori. Le radiazioni sono un nemico invisibile, inconsistente e inodore. Solo i contatori Geiger la rendono udibile, suonando furiosamente avvicinandoli al terreno. Là sotto le radiazioni si sono accumulate, sono state nascoste, e ora la terra le sputa fuori nel verde della vegetazione. Quell’immobile partita di pallone che da più di vent’anni si sta disputando all’ombra di tribune ormai marcite e abbandonate sa di rinascita e di morte.

Credit image: Dystopiaphotography.com

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Simone Tallone
“Come tutti i bambini, avrei voluto essere un calciatore. Giocavo benissimo, ero un fenomeno, ma soltanto di notte, mentre dormivo: durante il giorno ero il peggior scarpone che sia comparso nei campetti del mio paese. Sono passati gli anni, e col tempo ho finito per assumere la mia identità: non sono altro che un mendicante di buon calcio. Vado per il mondo col cappello in mano, e negli stadi supplico: «Una bella giocata, per l’amor di Dio».” – Ahimè, fossero parole mie! Eduardo Galeano parla per me!

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