Tutto nasce da un piccolo registratore nascosto, come nelle più consuete spy story. Inusuali sono i personaggi dell’intrigo: da una parte il giocatore del Genoa Roberto Breda, dall’altra parte l’allenatore Franco Scoglio. Era il 2001, Breda e il compagno Paolo Annoni lamentavano di non giocare e di non potersi allenare coi compagni, denunciavano l’impossibilità di poter svolgere il loro lavoro, arrivando a far causa alla società: un’intercettazione ambientale poteva essere utile. Poco più di un anno dopo arrivarono i casi dell’attaccante del Latina (allora in serie C2) Lorenzo Mattu, che intentò causa civile alla società sportiva per mobbing, e di Marco De Marchi e Patrizio Billio, all’epoca tesserati con la squadra scozzese del Dundee United dei fratelli Bonetti, che denunciavano allenamenti solitari, convocazioni mancate e soprattutto minacce e aggressioni, tanto da dover ricorrere a guardie del corpo.
Siamo ai pionieri del mobbing nel mondo del calcio. E negli anni la lista, rispetto agli esempi sopra citati, si è molto allungata e se , alle cronache, sono arrivati nomi come Pandev, Marchetti, Ledesma o Zarate, il problema riguarda soprattutto le serie minori, che meno spazio hanno sulla carta stampata.
Fenomeno complesso nell’ambito lavorativo e che presenta molte difficoltà all’atto di dimostrarlo, il mobbing lo potremmo definire (con l’aiuto del codice civile) un comportamento di carattere vessatorio e persecutorio che porta emarginazione e mortificazione morale.
Mobbing e calcio quindi, un binomio che si fatica a considerare per l’idea un po’ affettata che si ha generalmente di questo mondo. Ma proviamo per l’occasione a considerare il calcio non solo come un fenomeno sportivo; proviamo per un attimo a considerarlo un lavoro coi suoi diritti, i suoi doveri e le sue tutele. Un cambiamento che è avvenuto il 4 marzo del 1981 con la cosiddetta legge 91: il calciatore diventa lavoratore subordinato (a tempo determinato), godendo di tutela sanitaria, assicurazione sugli infortuni, trattamento pensionistico, senza dover più sottostare al cosiddetto “vincolo sportivo”, che fino a quel momento aveva fatto del calciatore un’autentica “merce di scambio”.
Venendo al mobbing, il problema è stato definire una casistica che ne permettesse il riconoscimento. A questo proposito è arrivato puntuale l’Accordo collettivo tra FIGC, Lega Nazionale Professionisti e l’Associazione Italiana Calciatori del 2005, il cui articolo 7 – che sancisce il diritto del calciatore ad avere attrezzature idonee alla preparazione, un ambiente consono alla sua dignità professionale e di partecipare agli allenamenti e alla preparazione precampionato – è stato usato negli ultimi anni per rivelare i comportamenti mobbizzanti di allenatori e società.
Il giocatore ha diritto ad allenarsi e alla preparazione precampionato. Ma non solo, ha anche il diritto di essere aggregato alla prima squadra e di essere allenato dal primo allenatore: solo così, ricevendo un allenamento non soltanto fisico, ma tecnico-tattico, è messo nelle condizioni di adempiere al meglio i suoi obblighi di lavoro. E a nulla vale rivendicare la discrezionalità dell’allenatore, questa si può pronunciare solo nella scelta delle convocazioni (a livello internazionale, invece, le FIFA Regulations danno diritto al giocatore di poter rescindere un contratto se non impiegati almeno il 10% delle gare ufficiali, portieri esclusi).
I casi di mobbing nella maggioranza dei casi riguardano l’esclusione dal ritiro precampionato, ma non mancano episodi di giocatori esclusi addirittura dallo spogliatoio e costretti a cambiarsi in un ripostiglio, o di giocatori finiti ad allenarsi in campo da soli, a volte addirittura senza illuminazione. E se le motivazioni spesso vengono classificate come scelte tecniche, spesso dietro questo comportamento si cela il rifiuto di una cessione voluta dalla società, ma non dal giocatore. A questo punto l’esclusione dalla squadra assume anche un carattere coercitivo, andando a punire il giocatore per la scelta fatta.
Un problema che, a questo livello, concerne il mercato e che ci riporta a quella che è passata alla storia come la sentenza Bosman. La sua applicazione in Italia infatti ha portato all’abolizione di quella che era definita “indennità di preparazione e promozione” (somma che la squadra di approdo doveva versare a quella di provenienza), che, tra le conseguenze, ha fatto sì che difficilmente i giocatori di valore arrivino a scadenza di contratto: il giocatore torna ad essere considerato “merce di scambio” della società, e se prende decisioni “sconsiderate” va portato a più miti consigli.
Di fronte a un conclamato comportamento vessatorio il giocatore ha due alternative: la richiesta di reintegro in squadra o la risoluzione del contratto. E se quest’ultima è sempre una scelta difficile, spesso pagata con periodi di inattività in una carriera breve come quella sportiva, il reintegro, nonostante previsto dall’accordo collettivo, non sempre viene rispettato, anche dopo il pronunciamento del collegio arbitrale, aprendo lunghi braccio di ferro tra giocatore e società che ne prolungano la lontananza dal campo.
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