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Il gabbiano Nigel Owens

Mynyddcerrig, Galles, Novembre 2015.

La macchina percorre lentamente il lungo viale che porta al piccolo cimitero del paese. La pioggia, fitta e sottile, cade incessantemente dalla mattina. Guardo fuori dal finestrino mentre il mio compagno guida con tranquillità. Mi sento felice. Sono un uomo finalmente appagato. Vedo la mano di lui posarsi sul cambio e la accarezzo con dolcezza. Arriviamo nel parcheggio, lo bacio e scendo dall’auto: la pioggia è fredda e ogni goccia sembra uno spillo che entra nella carne viva. Cammino verso l’ingresso del cimitero e penso, immagino, rimugino. Mi sono sempre sentito come un gabbiano. Un bel gabbiano bianco che, per qualche sfortunato motivo, si ritrova impantanato in quelle chiazze di petrolio che alcune volte si riversano in mare a seguito di incidenti navali. Il gabbiano ha le ali sporche di greggio, è appesantito e non riesce a volare. Sa che il suo destino è segnato, sa di non avere molta speranza. Sa perfettamente che se non arriverà una folata di vento a muovere l’acqua morirà. Il gabbiano ha bisogno di onde e vento. Ha bisogno di respirare aria nuova e pulita. Di ritornare a volare.

Mi fermo sotto il portico del cimitero. E’ sempre difficile, nonché inutile, andare a salutare la propria madre defunta. Ma è un atto dovuto verso chi mi ha recuperato da un tentativo di suicidio. Ricordo la lettera che scrissi ai miei genitori, la camminata sul colle dietro casa, il whisky e il paracetamolo, il fucile freddo che fortunatamente rimase a riposo. Il coma. E la mano di mia madre che teneva la mia nel letto dell’ospedale. Volevo solo non essere gay, ma lo ero. Volevo solo avere la forza di accettarlo. Era il 1997 e solo dieci anni dopo dichiarai al mondo intero di essere omosessuale. Sono pur sempre uno degli arbitri di rugby più apprezzati e conosciuti nel mondo della palla ovale ed è stato un coming out necessario. I giocatori: per loro è più facile, sono comunque gli idoli dei tifosi mentre per me non ha mai tifato nessuno.

Proseguo il cammino sotto la pioggia sottile e ripenso a quei momenti difficili della mia vita, a quei momenti in cui soltanto il rugby e gli affetti familiari mi hanno tenuto lontano dall’epilogo peggiore. Momenti in cui avevo bisogno di vento perche le mie ali erano completamente raggrumate di petrolio e non sarei riuscito ad uscirne vivo. Sarei stato risucchiato dal mare nero, travolto e sconfitto dalla vita. Arrivo davanti alla tomba di mia madre, fredda e bagnata, la guardo fissando lo sguardo nel vuoto. Sono così ironico e aperto sul campo da rugby quando mi rivolgo ai giocatori, quanto chiuso ed introverso nelle mie faccende personali. Parlo con lei e le inizio a raccontare del 31 ottobre,  non solo Halloween, ma Twickenham. La finale della coppa del mondo di rugby tra la Nuova Zelanda e l’Australia e io a dirigere le operazioni: la mia prima finale mondiale. Le racconto dell’arrivo negli spogliatoi, la preparazione, la vestizione, l’odore dell’erba e l’adrenalina negli occhi dei giocatori nel tunnel degli spogliatoi. Gli inni, la haka e finalmente la partita. Al minuto numero 80 la palla arriva al neozelandese Ben Smith che la calcia fuori. Mi porto il fischietto alla bocca, decretando la vittoria degli All Blacks. E, proprio in quel momento, finito il suono del fischio, ho guardato la tribuna. C’erano gli occhi di mio padre e del mio compagno fissi nei miei, un soffio di vento mi ha accarezzato i capelli e ha squadernato il mare nero in tante onde e sono ritornato a volare. Proprio in quel momento, son tornato ad essere il gabbiano Nigel Owens.

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Francesco Salvi
Da 35 anni appassionato di gesta sportive a 360°, fin da bambino ho praticato diversi sport, ma con scarsi risultati: calcio a livello agonistico, tennis, sci e l’odiatissimo nuoto. Il mio sangue è al 50% genovese, al 10% marchigiano e al 40% sampdoriano. Ho un debole per il divano di casa mia dal quale seguo indifferentemente qualsiasi competizione sportiva venga trasmessa in tv. Anche perché dal divano: “questo lo facevo anch’ io”. Sportivamente vorrei possedere: l’eleganza di Federer, la follia geniale di Maradona, il fisico di Parisse, la potenza di Tomba, l’agilità di Pantani, il romanticismo di Baggio e la classe di Mancini. Ma è impossibile, quindi rimango seduto.
Francesco Salvi

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