I francesi lo chiamavano Botescià, durante le corse per comodità usava scarpe da ballerina e fu il primo italiano a vincere il Tour de France (che si aggiudicò nelle edizioni del 1924 e 1925). Nonostante Ottavio Bottecchia sia stato il primo corridore della Grande Boucle ad indossare la maglia gialla dalla prima all’ultima tappa, ancora oggi le circostanze della sua morte, avvenuta dopo un’agonia di 10 giorni a Gemona sul Friuli il 15 giugno 1927, rimangono oscure. C’è chi ha ipotizzato una caduta in bicicletta causata da un malore dovuto ad una birra gelata; chi, come un contadino del luogo, si è auto-accusato di aver picchiato il ciclista perchè colpevole di dissetarsi con l’uva della vigna; chi in punto di morte si è dichiarato colpevole di averlo ucciso su commissione per un regolamento di conti dovuto a scommesse clandestine; e, immancabile, chi ha pensato all’incontro con un marito geloso.
Molte di queste ricostruzioni, però, non convincono del tutto. In primo luogo il campione fu trovato agonizzante in un tratto di strada in salita, pertanto è difficile pensare ad una caduta letale a velocità ridotta; chiunque abbia un minimo di dimestichezza con il mondo rurale (e Bottecchia l’aveva), sa che l’uva a giugno è tutto fuorché dissetante; infine, per chi avesse dubbi sulla sua condotta coniugale, è opportuno ricordare che Ottavio era molto devoto alla moglie Caterina, tanto da portarle a mano e in treno un mazzo di fiori dopo la Milano-Sanremo del 1923. Resta in piedi l’ipotesi del sicario e in effetti Bottecchia aveva partecipato ad alcune gare in velodromo negli Stati Uniti, ma quando saliva in sella c’era solo una cosa che non sapeva fare: perdere. Di sicuro c’è che la sua morte fu causata da un colpo ricevuto alla base del cranio, un trauma compatibile con una bastonata. E che il giorno prima dell’ incidente ebbe un alterco con un squadraccia fascista.
Oggi le bici dell’azienda di Cavarzere sono famose in tutto il mondo, ma la voce di Wikipedia sul primo vincitore italiano del Tour è desolatamente scarna. Per capirne di più, abbiamo intervistato Giacomo Revelli, autore di Bottecchia, fumetto realizzato in collaborazione con la matita di Andrea Ferraris.
Chi era Ottavio Bottecchia?
Nel tempo è stata una figura che ha assunto tante componenti, tutte più o meno eroiche. Nel 1917 finisce nel tritacarne della Prima Guerra Mondiale con il 6° battaglione ciclisti, ricevendo anche una medaglia di bronzo al valor militare per aver trasportato una mitragliatrice in bici. Dopo la guerra, invece, emigra in Francia alla ricerca di lavoro. Oltralpe fa il muratore, ma nel 1923 rientra subito in Italia per salire in bicicletta. Alla Milano-Sanremo di quell’anno arriva ottavo, partecipando come isolato nella squadra di Luigi Ganna; al Giro non può fare il salto per equilibri di squadra, ma nel frattempo viene notato da un osservatore di Henri Pellissier, che era il detentore del Tour e, avendo una squadra molto forte e con sponsor solidi, era in cerca di un buon gregario. Nel 1923, così, partecipa alla Grande Boucle e arriva subito secondo.
Come arriva a vincere?
Per arrivare ad essere un campionissimo bisognava fare una certa trafila, soprattutto perché il regime favoriva sportivi graditi a Mussolini. Nel ’24, però, Bottecchia riesce a fare il salto. All’epoca il Tour era una corsa durissima e Girardengo, per timore di brutte figure, sceglie di non partecipare. Il fascismo, così, decide di aderire alla sottoscrizione della Gazzetta dello sport e di mandare in Francia il piccolo mitragliere del Carso. Così lo chiamavano. In quell’edizione, poi, un po’ per protesta nei confronti di Desgrange (il patron del tour), un po’ perché Bottecchia aveva già vinto le prime tappe, va in scena la celebre rivolta di fratelli Pellissier: Henri, il maggiore dei 3 e detentore del titolo, per denunciare le condizioni proibitive in cui i corridori erano costretti a correre, durante una tappa si fermò e chiamando a sé i giornalisti rilasciò la famosa dichiarazione che i ciclisti non erano forzati della strada. Verrà squalificato e Bottecchia vincerà il tour. Anche l’anno successivo.
Quali erano i rapporti di Bottecchia con il regime?
Bottecchia era emigrato in Francia e non ha mai preso la tessera del partito fascista. Questo già dice qualcosa. Se avesse voluto rimanere in Italia, gli sarebbe bastato iscriversi e qualche lavoro lo avrebbe trovato. Quando correva e si trovava nella condizione di dover rilasciare dichiarazioni, non ha mai detto di vincere per l’Italia o per Mussolini. Insomma, non si è mai esposto come Girardengo. E per questo aveva ricevuto alcune lettere minatorie da simpatizzanti del regime che lo accusavano di essere un ingrato; quando il Tour passò da Nizza, ad esempio, la direzione della corsa gli permise di svestire la maglia gialla e arrivare in modo anonimo per tutelarsi dalle minacce che già aveva ricevuto. Nel ’24 mancava Girardengo, campionissimo ben visto dal regime, di conseguenza mancava l’Italia: suo malgrado Bottecchia fu obbligato al ruolo dell’eroe, ad essere alfiere dell’italianità, il portabandiera (fascista) in terra transalpina. Ma in realtà a lui interessava solo correre. E vincere.
Aveva simpatie politiche?
Si dice avesse tendenze socialiste-anarchiche. Alcune leggende, addirittura, raccontano che fosse amico di Bordiga, ma confermarle è difficile. Sicuramente l’andare in Francia gli fece sempre avere una prospettiva differente sulle vicissitudini dell’Italia, uno sguardo che ha sempre mantenuto, tanto da essere accusato di essere un corridore filo-francese. E in effetti correva con l’ottica francese: gareggiava per vincere, non per inneggiare alla potenza dell’Italia. E poi se finisci in squadra con Henri Pellissier, anarchico e libertino, era veramente difficile sostenere il regime.
Cosa rappresentava la bicicletta per Bottecchia?
Per lui la bici non era un mezzo di affermazione politica o sociale. Era una protesi del suo corpo. Ovunque andasse la portava con sé: in guerra, in Francia e anche in Italia, dove ha impiegato i soldi vinti nelle corse per crearne una fabbrica. Era una passione totalizzante, completa. Un mezzo di elevazione spirituale.
E il ciclismo di quei tempi?
Era una carovana che portava festa, che sollevava dalla normalità e dal lavoro duro. Era un potente spot e per questo il fascismo cercò di impossessarsene subito. Il calcio era seguito, certo, ma la bici, con la metafora della fatica e del lavoro, aveva un valore decisamente diverso.
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