La mia ingenuità di bambino fu salva fino al 2002, quando la mia infanzia era già finita da parecchio tempo. Ricordo i sabato mattina attaccato a un tubo catodico che sparava luci stroboscopiche su giganti muscolosi, tirati a lucido e vestiti a tema, e tutto quello che adesso chiamerei prosaicamente merchandising, ma che allora erano un ring in scala ridotta e una serie di omiciattoli, tutti in plastica, tutti colorati, tutti col volto dei wrestlers appena visti in tv: tutti con qualche molla nascosta ad azionare l’esclusiva mossa caratteristica, da accompagnare inevitabilmente con un’onomatopea esagerata.
Fino al 2002, appunto, data in cui la WWF, la federazione mondiale di wrestling, in seguito a una causa intentata dalla più conosciuta World Wildlife Fund, cambiò nome diventando WWE, dove la E sta per Entertainment.
Una sola parola e cade il velo:
– “Gli incontri sono decisi a tavolino”.
– “Forse per te, Pa’”.
E invece, tutto predeterminato. Solo ora, padre a mia volta, posso affermare con assoluta certezza che i padri hanno sempre ragione. A distanza di 10 anni, ovviamente.
“Il catch non è uno sport, è uno spettacolo”, sentenziava Roland Barthes nel suo “Mythologies” (chiunque scriva un articolo sul wrestling non può esimersi dal citare il famoso semiologo: ne guadagna in autorevolezza, alza subito la qualità della materia).
Ci fu un tempo in cui i combattimenti non erano predeterminati, anche se l’intrattenimento stava all’origine di tutto, dato che le prime esibizioni di wrestling vanno ricercate nelle fiere itineranti. Gli atleti mischiavano prese da lotta greco romana ad arti marziali e utilizzavano armi improvvisate, un po’ come adesso. Tuttavia, nonostante le leggende e le dicerie che gli impresari facevano girare attorno ai propri lottatori, lo show difettava di pathos. Perché in fondo al pubblico non interessava sapere se l’incontro fosse truccato: per le scommesse c’era il pugilato. Il pubblico chiedeva di uscire sazio, esigeva che la sua vista venisse riempita fino in fondo. Nell’incontro di wrestling tutto doveva essere esageratamente visibile: il dolore, l’umiliazione, la rivalsa, la giustizia. Tutto immediatamente intelligibile.
L’enfasi dev’essere quella del teatro antico. Sul ring si può irritare o disgustare, ma mai, mai deludere. “La funzione del lottatore non è di vincere, ma di compiere esattamente i gesti che ci si aspettano da lui” (Barthes, altra citazione!).
Tra una nazione e l’altra ovviamente cambia il pubblico e di conseguenza lo spettacolo. E se l’appassionato giapponese predilige l’incontro più tecnico, quello messicano esige velocità e mosse spettacolari. Ma il wrestling che ha riempito i miei sabato mattina è sempre stato quello americano, dove il ricorso alla storyline, rende la lotta simile a una serie televisiva.
Bando alla tecnica, si dia spazio alle emozioni!
Andiamo al 29 marzo 1987. Va in scena la Wrestlermania III. Più di 93.000 spettatori scaldano il Pontiac Silverdrome di Pontiac, Michigan, il più grande numero di pubblico pagante nella storia del wrestling, e chissà quanti milioni di persone la stanno seguendo in pay-per-view. Siamo all’apice della cosiddetta Golden Age di questa disciplina. La voce di Aretha Franklin riecheggia assordante dalle enormi casse appese un po’ ovunque.
È l’evento dell’anno, la serata in cui tutte quelle che in gergo si chiamano faide, le rivalità portate avanti nei vari incontri tutto l’anno, hanno il loro epilogo.
Il pubblico si aspetta un lieto fine, che il proprio beniamino, generalmente un face, il buono, prevalga sul heel, il cattivo (si strizza l’occhio anche al cattivo che vince: in fondo la prevaricazione ha da sempre i suoi ammiratori). La grammatica della gimmick è ormai consolidata, e se si vuole che un combattimento si trasformi in telenovelas, i ruoli dei protagonisti devono essere ben definiti, assolutamente evidenti (si parlava di intelligibilità, prima). E sui ring degli anni ’80 sono tutti riconoscibili: il poliziotto, l’esattore delle tasse, il barbiere, il modello, l’uomo da un milione di dollari, per dirne alcuni. E poi tanti, tanti difensori della patria.
Le sfide, in quella sera di inizio primavera, sono tante, ma tutti aspettano “the biggest main event in sports entertainment“. Hulk Hogan contro Andrè The Giant. In palio il WWF World Heavyweight Championship detenuto da Hogan.
Proprio lui, insieme a The Ultimate Warrior e Randy Savage, è all’epoca forse l’uomo immagine del Wrestling: la cintura del titolo, la parte in Rocky III, l’Hulk Hogan’s Rock ‘n’ Wrestling. È scoppiata l’Hulkamania.
Sul gigante André René Roussimoff ci sarebbe da scrivere un libro: francese di origini bulgare e polacche, a 12 anni già alto 192 cm, a 18 il suo debutto a Parigi come wrestler, prima di salire sui ring di tutto il mondo.
All’entrata degli sfidanti nell’arena l’ovazione è per Hulk Hogan, ad Andrè The Giant solo cori di disapprovazione. Possiamo immaginarne i ruoli: chi sia il buono e chi il cattivo.
Facciamo un passo indietro. La faida ha principio quando Hogan riceve un trofeo dalla WWF per aver mantenuto per tre anni consecutivi il titolo. Andrè, buon amico, lo raggiunge per congratularsi. Fin lì, tutto bene.
Ma poco dopo al gigante viene consegnato un trofeo molto più sobrio per la sua imbattibilità nella WWF che perdurava da 15 anni. Hulk si felicita con lui, commettendo lo sgarro, però, di diventare la star della premiazione.
Si sa, i wrestlers sono persone permalose, per questo Andrè, durante il discorso dell’amico in suo onore, si allontana arrabbiato.
Gli ingredienti della telenovelas sono un po’ stiracchiati, ma ci sono tutti. E non passa molto che, durante una puntata del Piper’s Pit, Andrè volta le spalle al vecchio amico e lancia la sfida al titolo all’imminente Wrestlermania III. Ovviamente tutto questo era il disegno del malvagio manager di Andrè, Bobby “The Brain” Heenan, arcinemico di Hogan, che aveva fatto il lavaggio del cervello al gigante buono convincendolo che Hogan mandava avanti la loro amicizia solo per timore che Andrè un giorno avrebbe potuto sconfiggerlo e sottrargli il titolo.
La frittata è fatta.
Il 29 marzo, dopo tanta attesa, c’è da dire che i 12 minuti di combattimento non sono un granché.
Sugli schermi, al pubblico che si era perso qualcosa si riepiloga il motivo del contendere: la passata amicizia, l’affronto, la sfida. Tutto condensato in due minuti modello “dalle puntate precedenti”.
Poi l’entrata. Hogan è carico, canotta gialla “strappa e getta” Hulkamania. Il gigante lo attende sul ring. I due stanno fermi, non osano toccarsi. Poi è Andrè che dà inizio alle danze.
The Giant, data la mole, mette da parte l’agilità e punta tutto sulla forza: sulla resistenza all’incasso e sulla forza. Un monolite in lycra nera. Hogan per un po’ le prende, ma poi avviene il riscatto, il romanzesco mutar della sorte da sempre tanto caro agli appassionati di catch: ruggisce spettinato, i pugni e le prese di Andrè non fanno più male.
L’obiettivo diventa riuscire a sollevare il gigante. Non molti lottatori ce l’hanno fatta.
Hulk ci prova dopo soli due minuti: presa body slam, ma niente da fare, il colosso non si stacca da terra. Ma poi, quando meno te lo aspetti, Hogan annulla la gravità: solleva Andrè con una scoop slam; neanche il tempo di accusare il colpo ed ecco un leg drop. E’ l’epilogo: il gigante non si rialza. Hulk Hogan conserva il titolo. Combattimento finito. La faida no, ovviamente, quella resta a metter pepe alle successive stagioni.
Dicembre 1987, due considerazioni.
Il match tra Hulk Hogan e Andrè The Giant non fu apprezzato dai critici. Dave Meltzel assegnò all’incontro 4 stelle in negativo e la Wrestling Observer Newsletter lo nominò peggior incontro dell’anno. Siamo ormai al tramonto della Golden Age: da lì a poco inizierà la stagione di The Ultimate Warrior, che però non risulterà all’altezza delle aspettative.
Per dare però un’idea dell’evento, nonostante il lungo dibattito sulle cifre, gli spettatori paganti risultarono essere precisamente 93.173. Solo Giovanni Paolo II riuscì a portarne di più. Pochi di più. E a gratis.
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