La relazione Uefa sul calcio femminile in Europa nella stagione 2015-16 restituisce l’immagine di un movimento che da un lato è in forte crescita in termini di partecipazione e praticanti, dall’altro, invece, denuncia indirettamente criticità economiche, strutturali e mediatiche. Gli indicatori positivi sono pochi e concentrati soprattutto in quello che si può definire l’amore per il pallone. Ovvero, le donne. Il resto invece è la testimonianza di carenze che si possono tranquillamente definire di sistema.
Tra le 54 federazioni affiliate alla Uefa, infatti, sono circa 2 milioni le giocatrici tesserate, ben 7 i paesi con oltre 60 mila praticanti (Danimarca, Inghilterra, Francia, Germania, Olanda, Norvegia, Svezia), quasi 9 mila gli arbitri donna e oltre 13 mila le allenatrici. Migliora anche l’organizzazione: 49 nazioni hanno di fatto formato un campionato femminile, 50 hanno una rappresentativa nazionale e 35 hanno programmi calcistici per disabili (di cui l’11% partecipanti donna). Ma le percentuali positive terminano qui. Le donne impiegate nelle federazioni nazionali, infatti, sono solo circa il 29% della forza lavoro e soltanto 2219 sono le giocatrici professioniste (suddivise in 145 club in 23 paesi). Anche l’accessibilità alla pratica calcistica non fornisce segnali particolarmente incoraggianti: per soltanto 11 paesi su 54 la distanza casa-campo è di 5 km; per 9 nazioni, invece, va dai 6 ai 15 km; mentre per ben quasi 32 federazioni si va oltre i 15 km. Tanto per fornire un metro di paragone, il sottoscritto per coprire a piedi la distanza casa-playground impiega 20 minuti. Circa 2 km a passo lento.
A questi numeri, ovviamente, fanno seguito gli investimenti. Il budget complessivo stimato dalle 54 federazioni nel movimento calcistico femminile nell’anno 2016 è di circa 96,7 milioni di euro (di cui solo il 13% per i salari). In pratica: 1,8 milioni in media per paese. Ma andando nel dettaglio non possono non saltare agli occhi differenze macroscopiche, che sottolineano come l’impegno di pochi serva a riequilibrare il distacco di altri. Ben 39 paesi, infatti, stanziano una quota inferiore alla media, solo 15 la superano e soltanto 8 vanno oltre i 3 milioni di euro.
Anche in questo caso, per fornire un adeguato raffronto, è utile ricordare che nel 2014 la cessione di Garrett Bale, dal Tottenham al Real Madrid, è costata ai blancos qualcosa come 101 milioni di euro. La naturale conseguenza di questo scarto economico è ovviamente il basso appeal mediatico. L’audience fa segnare numeri che sono sì in crescita, ma che spariscono se paragonati agli indici di ascolto d’oltreoceano. La copertura digitale della Champions League femminile è infatti avvenuta in soli 7 paesi, mentre negli Stati Uniti la finale dei mondiali vinta da Hope Solo e compagne ha avuto ascolti superiori perfino alle finali NBA: 25, 4 milioni vs 20 milioni (fonte New York Times).
Per esaurire la panoramica sul calcio femminile europeo, è corretto evidenziare che i dati Uefa non sono entusiasmanti se paragonati agli omologhi maschili e in termini assoluti. Forse non è neppure corretto l’accostamento statistico alla Serie A, alla Liga o alla Premier, ma è convinzione di chi scrive che la parità di genere non debba essere perseguita soltanto parzialmente, ma che anzi sia un gap da colmare nel più breve tempo possibile e con ogni mezzo. Fino al suo raggiungimento. E’ indubitabile, però, che in termini relativi il dossier della Uefa segni una crescita del movimento calcistico femminile, soprattutto nelle aree europee centro-settentrionali: non a caso le prime sei nazioni per numero di giocatrici sono la Germania (197 mila), la Svezia (169 mila), l’Olanda (145 mila), l’Inghilterra (99 mila), la Norvegia (96 mila) e la Francia (85 mila).
E l’Italia? La situazione non può che definirsi drammatica. Per la legge italiana le donne possono praticare calcio solo per divertimento, ma non per lavoro. In pratica: nel calcio femminile non esiste professionismo. Questa situazione, inaccettabile già di per sé, peggiora guardando i dati della relazione Uefa. Nel nostro paese le donne che riescono a praticare pallone sono 22564 (quasi +10% rispetto al 2014/15), superate da Danimarca (69 mila), Spagna (31 mila), Ungheria (25 mila), Polonia (30 mila), Finlandia (28 mila), Belgio (27 mila) e Irlanda (24 mila); la distanza media dal campo di allenamento è di oltre 20 km e il budget stanziato dalla Figc per lo sviluppo del movimento femminile è di soli 3 milioni di euro. Diventa quasi obsoleto sottolineare come non esistano sponsor e che la (s)proporzione tra allenatori e allenatrici sia di 9 a 1. Tralasciando per un istante anche l’esposizione mediatica, quasi nulla se si eccettua Sky, e alla luce di quanto emerso finora, non sorprendono più di tanto le dichiarazioni di Carlo Tavecchio (presidente Figc) del maggio 2015:
Si pensava che le donne fossero handicappate rispetto al maschio, ma abbiamo riscontrato che sono molto simili (fonte Corriere.it).
O quelle di Felice Belloli (all’epoca dei fatti presidente della Lega Nazionale Dilettanti), che stando al verbale della riunione di lega del 5 marzo 2015 così si sarebbe espresso:
Basta! Non si può sempre parlare di dare soldi a queste quattro lesbiche (fonte Gazzetta.it).
Non stupisce, quindi, che le donne in Italia siano costrette ad affrontare ostacoli e pregiudizi, che non solo rallentano la crescita del movimento nel suo complesso, ma che soprattutto frustrano i sogni di migliaia di giovani ragazze.
Di recente Codice Rosso, programma d’inchiesta sportiva, condotto su Sky da Gianluca Vialli, ha dedicato una puntata al calcio femminile, ponendo l’accento sulle differenze che intercorrono tra il nostro paese, il resto d’Europa e gli Stati Uniti. Se in Italia, a parità di lavoro, una donna guadagna l’11 % in meno rispetto ad un uomo, nel calcio il gender gap retributivo scava un solco ancora più ampio (1000/1500 euro è il salario per una calciatrice della Nazionale). Alle nostre giocatrici, quindi, non resta che trovare rifugio in altri paesi. In Germania, ad esempio, dove il budget annuale stanziato dalla federazione è di 8,5 milioni. O in Francia, dove negli ultimi 10 anni squadre come Montpellier, Lione e Psg hanno deciso di investire sulla propria sezione femminile. In Italia, invece, risale solo allo scorso anno l’illuminato consiglio della Figc che ha “invitato” i club professionistici a dotarsi di una formazione femminile. In serie A soltanto la Fiorentina ha raccolto l’idea.
Eppure gli esempi virtuosi non mancano. Negli Stati Uniti, ad esempio, sono più donne che uomini a praticare il calcio, il movimento femminile ha di conseguenza notevole copertura mediatica e gli sponsor investono nel settore. La finale mondiale tra Usa e Giappone, ad esempio, è stato il terzo evento sportivo più tweettato del 2015 e, a seguito della vittoria mondiale, 5 giocatrici hanno mosso causa alla Federazione Statunitense rivendicando stesso trattamento salariale (uomini 8 ml di €, donne 1,8 ml di €). Le ragazze americane, infine, hanno anche intrapreso una legittima querelle con la Fifa sull’utilizzo dell’erba sintetica nella massima competizione per nazionali: a chi mai verrebbe infatti l’idea di far giocare Messi o Ronaldo sul sintetico anziché sull’erba?
Proprio come la notte, che è sempre più buia prima dell’alba, anche per il calcio femminile è un impegno/dovere immaginare (e realizzare) un futuro di speranza. E uguaglianza. Da quest’anno, infatti, in Italia le squadre maschili di Serie A hanno l’obbligo di tesserare 20 bambine under 12 per creare un settore giovanile femminile nel giro di un triennio. Perché prendendo a prestito le parole di Billie Jean King, la tennista che ha vinto la battaglia dei sessi, il calcio femminile è un’opportunità e un dovere. In termini di business ha capacità di crescita incredibili e la FIFA ha l’obbligo di investire le risorse necessarie affinché sia davvero un gioco per tutti. Se vincono le donne, vincono gli uomini.
Già. Se vincono le donne, vincono anche gli uomini.
Credits Image: Blue Nash
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