Il Brasile è la patria del futbol bailado: i brasiliani si considerano i massimi cultori di un calcio capace di coniugare bellezza estetica e concretezza. Funamboli del dribbling e fanatici del gioco spettacolare, nell’immaginario collettivo i verdeoro sono la Nazionale per eccellenza, capace di vincere e divertire. Basti pensare a Joga Bonito, l’irriverente campagna della Nike per promuovere un calcio meno attento ai tatticismi e più incline al rischio.
L’amore per il calcio spettacolare è parte integrante dell’identità nazionale, tanto che i brasiliani sono quasi convinti di meritare la vittoria finale di diritto. Il catenaccio italiano o la rigida organizzazione tedesca sono visti quasi come subdoli trucchi, lo stratagemma europeo per rimediare ad un incolmabile gap di talento. Il Brasile gioca come se fosse costretto a vincere: fa quasi più scalpore l’eliminazione dei verdeoro rispetto alla loro vittoria finale. Churchill diceva che gli italiani “vanno alla guerra come fosse una partita di calcio e vanno a una partita di calcio come fosse una guerra”: impossibile dargli torto, ma anche il Brasile non è da meno. L’eliminazione da un Mondiale coincide con una vera e propria tragedia nazionale: un processo pubblico con 200milioni di giudici. E senza appello.
Le sconfitte più clamorose del Brasile sono tre, e tutte prendono il nome dello Stadio dove si è consumato il dramma. Il Maracanazo, il Sarrià, il Mineirazo: in Brasile se ne parla come di Waterloo, o di Caporetto. Battaglie perse che hanno segnato la memoria collettiva, di cui si tramandano errori divenuti peccati mortali.
Del Mondiale casalingo del 1950 si è scritto fin troppo: la finale con l’Uruguay doveva essere una formalità e Rimet era già pronto a consegnare le medaglie ai brasiliani, davanti a 200mila spettatori in delirio. Bastava un pareggio per diventare campioni, ma la tempra di Varela e i gol di Ghiggia e Schiaffino trasformarono l’annunciata festa in un incubo. Nei giorni successivi si contarono decine di suicidi, e Barbosa, portiere colpevole di non aver fermato il gol di Ghiggia, diventò il perfetto capro espiatorio. Neanche il Tempo riuscì ad assolverlo: fino alla morte fu considerato alla stregua di un criminale di guerra rimasto impunito. Ancora negli anni Novanta, i vecchi lo guardavano con disprezzo, e le madri lo indicavano ai figli come un traditore della patria, colpevole che aveva spezzato i sogni di un intero Paese. Prima di morire, ebbe modo di dire: “In Brasile la pena massima è di trent’anni, ma io sto pagandone più di quaranta per un crimine mai commesso”.
Nei decenni successivi, il Brasile diventa il mito che tutti conosciamo: proprio mentre il calcio diventa un fenomeno di massa, complice il boom economico e l’arrivo della televisione, i verdeoro vedono sbocciare alcuni dei loro talenti più cristallini. Didì Vavà e Pelé regalano la prima gioia mondiale in Svezia, e quattro anni dopo è un immenso Garrincha a guidare la trionfale spedizione cilena. Messico 1970 consacra il Brasile tricampeão, relegando Pelé all’Olimpo dei più grandi sportivi di tutti i tempi. Negli anni 70 i verdeoro hanno un passato troppo grande per essere emulato: nel 1974 è l’Arancia Meccanica di Cruijff ad eliminarli, mentre quattro anni dopo è la differenza reti nel girone a premiare l’Argentina padrona di casa grazie ai sei gol segnati ad un Perù davvero poco combattivo.
Nel frattempo il Brasile ha allevato una nuova generazione di campioni, cresciuta nel mito di Pelé ed ansiosa di imitarne le gesta: nel 1982 in Spagna la Seleção presenta Cerezo, Falcao, Zico e Socrates. Probabilmente la linea di centrocampo tecnicamente più forte della storia del calcio: logico che le aspettative in patria siano altissime, quasi come 32 anni prima. È la tracotanza il peccato del Brasile di Tele Santana: tanto bello da credersi invincibile, tanto forte da non rimediare a evidenti lacune tattiche. La sconfitta 3-2 contro l’Italia di Paolo Rossi è tanto inattesa quanto sconvolgente: l’organizzazione e la concretezza degli Azzurri si dimostrano più efficaci delle splendide fiammate di tecnica dei verdeoro. Zico definì il risultato come “la morte del calcio”: già l’Ungheria del 1954 e l’Olanda del 1974 avevano dimostrato che non bastava essere la squadra più bella per vincere il Mondiale. Ma il risultato del Sarrìa per gli esteti è ancora più perentorio: è la vittoria del catenaccio sulla tecnica, sembra quasi il trionfo dell’efficienza sulla bellezza. Quasi un’allegoria, se così vogliamo leggerla, dell’approccio che si afferma negli stessi anni a livello culturale: il risultato davanti al metodo, il fine davanti ai mezzi. Per i passionali tifosi brasiliani, una vera e propria catastrofe.
Nel 1994 il Brasile si laurea tetracampeão, a distanza di 24 anni dall’ultimo titolo; nel 1998 è il misterioso malore di Ronaldo a fermare la Seleção a Saint Denis. Nel 2002 in Corea, Ronaldo e Rivaldo regalano la quinta gioia mondiale ai verdeoro, che nel 2014 si trovano ad ospitare nuovamente la manifestazione. 32 anni dopo il Sarrìa e 64 anni dopo il Maracanazo, quella assurda notte che ancora agita i sogni dei vecchi carioca. Il Brasile avrebbe potuto avere un’altra generazione d’oro, ma troppi giocatori si sono persi per strada, annichiliti dagli infortuni come Pato o annegati in mezzo a casse di birra come Adriano. Le speranze brasiliane sono riposte nel talento del giovanissimo Neymar e nel pugno di ferro di Scolari, demiurgo della spedizione asiatica del 2002. La Seleção fatica fin dalla prima partita, ma i suoi duecento milioni di tifosi non sembrano accorgersene: nessuno ha mai organizzato due Mondiali senza vincerne uno, e non può certo essere il Brasile a stabilire questo record negativo. I verdeoro vincono il girone solo grazie alla differenza reti, e agli ottavi incontrano l’agguerritissimo Cile: solo la traversa di Pinilla (“A un centimetro dalla gloria”) e la lotteria dei rigori permettono ai brasiliani di accedere ai quarti, dove incontrano la Colombia. I cafeteros si rivelano un’eterna incompiuta, incapace di valorizzare il talento della sua miglior generazione dai tempi di Valderrama e Asprilla. Il Brasile vince e passa in semifinale, dove lo aspetta la Germania. Quel che accade a Belo Horizonte è cosa nota: i tedeschi infliggono ai verdeoro la più colossale sconfitta della sua storia, un 7-1 inappellabile. Gli déi sono caduti, e nel modo più fragoroso possibile: più che loro a piangere, stavolta è il resto del mondo che li guarda quasi ridendo.
54 anni dopo il dramma del Maracanazo, ecco il goffo tonfo del Mineirazo: forse aveva ragione Marx quando diceva che la storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia la seconda come farsa.
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