Via del Molo 13 è proprio di fronte ad un parco giochi per bambini. Fino a poco tempo fa era un campo da calcio, un classico playground in cemento nel cuore dell’angiporto genovese. Da un lato c’è il Porto Antico, dall’altro i caruggi. Ad unirli porta Siberia. Ma via del Molo 13, a Genova, non è un indirizzo qualsiasi. E’ quello di Palazzo Massoero, o meglio il Massoero. L’asilo comunale. E averlo scritto sulla carta d’identità era sinonimo di senza tetto o disperato. Ma senza-tetto, senza-casa e senza-dimora sono locuzioni con significati e condizioni molto differenti fra loro. In Italia non esistono definizioni giuridiche precise (o per lo meno, io non le ho trovate), quindi vale la pena farsi aiutare dalla classificazione della Feantsa (Federazione Europea delle organizzazioni che lavorano con persone senza dimora) per capirne di più.
Il roofless (senza-tetto) è una “persona senza un domicilio fisso, che vive in strada o in sistemazioni di fortuna e che a volte ricorre a dormitori o strutture di accoglienza notturna”; l’ houseless (senza-casa), invece, non dorme in strada perché pur non avendo una casa propria “è ospite in strutture come dormitori o centri di accoglienza”; l’homeless (senza-dimora), infine, è una “persona che si trova ad affrontare sia una problematica abitativa sia, soprattutto, una grave situazione di emarginazione ed esclusione sociale”.
Espressioni come senza tetto e senza casa, poi, si riferiscono al lato materiale e fisico dell’abitazione (in inglese house), mentre senza dimora ha dietro il significato anglosassone di home, inteso come il luogo degli affetti e delle relazioni. A livello internazionale, però, il termine più usato per identificare le persone senza-dimora è homelessness, che in italiano può essere tradotto con grave emarginazione: uomini e donne che vivono una condizione di sradicamento sociale, relazionale e comunitario e che vivono un disagio complesso, non dettato da una scelta di libertà (contrariamente a quanto spesso si crede), ma da acuta sofferenza e rottura radicale rispetto alle reti sociali. Un rottura che impedisce loro di mantenere relazioni e trovare accoglienza dai servizi sociali.
E che in alcuni casi conduce anche alla morte (da Parlarecivile.it).
L’emarginazione si può combattere in molti modi. E uno di questi è sicuramente tramite lo sport. A questo devono aver pensato Mel Young e Harald Schmied, quando nel 2001 ebbero l’idea della Homeless World Cup Foundation: associazione che organizza, ogni anno e sempre in città differenti, l’omonimo torneo di calcio per senza dimora (la prima edizione si è svolta a Graz nel 2003, mentre quella di quest’anno si terrà a Glasgow dal 10 al 16 luglio). La fondazione, supportata dalla Uefa e da ambasciatori come Colin Farrell, Irvine Welsh e Emmanuel Petit, è un ente di beneficienza che riesce a far muovere persone da tutto il mondo grazie al sostegno di sponsor, sostenitori privati e volontari. L’HWCF, infatti, lavora con una rete di organizzazioni che rappresentano 73 nazioni in tutto il globo, partner nazionali che variano in dimensioni e struttura, ma tutti con un unico minimo comune denominatore: sfruttare il potere del calcio per aiutare persone senza fissa dimora e socialmente svantaggiate. Il network funziona così: per ogni paese viene scelta una sola organizzazione, che, collaborando con la Homeless World Cup, si guadagna il diritto a rappresentare la propria nazione al torneo. L’organizzazione scelta, poi, agisce come referente per l’attività di calcio di strada e se in seguito una nuova associazione volesse essere coinvolta, si vedrebbe incoraggiata a collaborare con il partner nazionale già esistente.
La filosofia alla base della manifestazione è semplice: aiutare gli homeless di tutto il mondo e dare loro una possibilità di cambiamento. E farlo attraverso il calcio. Perché giocare a pallone, alla fine dei conti, è una cosa semplice. Mentre difficile, troppo spesso, è la vita di chi è costretto all’isolamento, colpito nella capacità di condividere e comunicare i propri pensieri o di lavorare con gli altri. La magia di 2 porte e 1 pallone sta proprio qua: nell’essere coinvolti, nel costruire relazioni e diventare un compagno di squadra che si fida del prossimo. L’incanto, in definitiva, è quello di responsabilizzare l’individuo, incentivare la partecipazione e ispirare un cambiamento. Non solo il calcio fa tutto questo, ma migliora anche altri aspetti: la salute fisica, l’autostima e non da ultimo stimola anche coloro che non hanno risposto ad altri metodi di intervento. In definitiva, una possibilità di trasformazione non solo per chi scende in campo, ma anche per chi sta sugli spalti. I giocatori, infatti, oltre a confrontarsi con persone che hanno vissuto esperienze simili, rappresentano il proprio paese e il tifo diventa così un modo per guardare a chi ha vissuto ai margini della società in modo differente. Senza pregiudizi.
La manifestazione prevede diversi livelli di partecipazione, altrettanti trofei da vincere (in modo da fornire ad ognuno il giusto senso di realizzazione) e squadre maschili e femminili.
Le regole sono poche, ma semplici (da Wikipedia):
- Ogni squadra può avere un massimo di 4 giocatori, incluso il portiere.
- Le sostituzioni disponibili durante una partita sono 4.
- Durante ogni fase di gioco, i tre giocatori di movimento della squadra che attacca, una volta che il pallone ha superato la linea di centrocampo, devono trovarsi o portarsi subito nella metà campo avversaria; viceversa solo due giocatori (più il portiere) della squadra che si difende possono stazionare nella propria metà campo, mentre il terzo giocatore di movimento deve restare al di là della linea di centrocampo. La regola è riassunta nel motto esplicativo “si attacca in tre, ci si difende in due” (ovviamente non conteggiando i portieri, che non escono dalle rispettive aree di rigore).
- La durata di una partita è 14 minuti.
- La squadra vincitrice si aggiudica 3 punti, i perdenti 0; in caso di pareggio, si ricorre ai calci di rigore.
- Le misure del campo sono: 22m (lunghezza) x 16m (larghezza).
E poi? Poi c’è il ritorno alla vita di tutti i giorni, ma con alle spalle un’esperienza che in molti casi è spinta al cambiamento, avvicinamento al lavoro, all’istruzione o a percorsi di riabilitazione. Perché in fondo il calcio è davvero qualcosa più che uno sport, un mondo a parte che ha le sue ragioni misteriose che la ragione non conosce.
Proprio come scriveva Osvaldo Soriano.
credits image: Angelique Toner
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