Sono ormai passati quasi trent’anni dall’inizio della più terribile guerra fratricida verificatasi in Europa dai tempi della seconda guerra mondiale. Sono stati scritti innumerevoli libri sull’argomento, alcuni registi hanno ricevuto importanti riconoscimenti per film incentrati sulla guerra nell’ex Jugoslavia, ma l’Europa, oggi come allora così debole e frammentata, non ha mai fatto veramente i conti con questa immane rovina.
Tra le varie tragedie scaturite dalla barbarie balcanica di inizio anni Novanta, una minore in termini assoluti, ma sicuramente importante, ha riguardato il mondo dello sport e del calcio in particolare, con la fine della nazionale dei “Plavi” e del campionato jugoslavo.
Qualunque appassionato di calcio nato a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta non può non aver mai sentito parlare o ricordarsi della Coppa dei Campioni vinta nel 1991 dalla Stella Rossa di Belgrado o l’eliminazione nei quarti di finale della Jugoslavia a Italia 90 per mano dell’Argentina di Maradona. Quella nazionale rimarrà sicuramente una tra le più grandi incompiute della storia del calcio, con un potenziale tecnico enorme, ma minata dall’esterno e, in parte anche dall’interno, da uno stato che stava naufragando come un iceberg alla deriva per mano dei vari nazionalismi.
Fino al 1991 non esisteva un campionato di calcio serbo, sloveno o croato, ma la la Prva Liga, un campionato di calcio jugoslavo che annoverava le più forti squadre delle varie repubbliche: Stella Rossa (Crvena Zvezda), Partizan Belgrado, Dinamo Zagabria, Hajduk Spalato, Vojvodina, FK Sarajevo. Come in ogni regime totalitario, seppur non allineato, anche in Jugoslavia il calcio è stato utilizzato dal potere al comando come instrumentum regni, ma non sempre visto in maniera positiva, in quanto si temeva che il tifo potesse diventare veicolo di idee nazionaliste (cosa che in parte avveniva effettivamente). Derive che a seguito della morte dello stesso Maresciallo avrebbero assunto toni ben più aspri, sospinte dai vari Milosevic e Tudjman, fino alla comparsa di imprenditori della guerra come il famigerato comandante Arkan.
Storicamente le quattro squadre più importanti dell’ex-Jugoslavia, cioè Hajduk Spalato e Dinamo Zagabria (di cui era tifoso il presidente secessionista croato Tudjman) sulla sponda croata, e Partizan e Stella Rossa dalla parte Serba, hanno visto all’interno delle rispettive tifoserie frange estremiste portatrici di ideologie centrifughe e nazionaliste, ma mai, almeno fino alla fine degli anni Ottanta, si erano spinte fino a diventare veri e propri gruppi paramilitari che si sarebbero fronteggiati successivamente sui campi di battaglia in una guerra etnica in cui le atrocità non mancarono da nessuna delle parti in causa. Il tifo calcistico, che già stava subendo l’esasperazione dovuta in buona parte a una situazione economica di grande crisi, venne manovrato e incanalato da loschi personaggi che miravano a trasformare le curve dei tifosi in piccoli eserciti. Il principale fautore di questa trasformazione aveva un nome e cognome: Zeljko Raznatovic, che il mondo conoscerà come comandante Arkan.
Già criminale comune, rapinatore di banche, assassino al soldo dei servizi segreti jugoslavi, con mandati di cattura pendenti in mezza Europa, Raznatovic, sul finire degli anni Ottanta, era già uno dei più potenti boss della malavita belgradese e intuì, complice la salita al potere dell’ultra-nazionalista Slobodan Milosevic, che venti di guerra stavano per aleggiare sulla Jugoslavia, intravedendo così un’opportunità unica per aumentare la propria autorità e la possibilità di fare ottimi affari con la situazione che andava delineandosi. Agli inizi del 1989, Jovica Stanisic, capo della sicurezza di Stato di Milosevic – che nel 2003 sarà processato presso il Tribunale Internazionale dell’Aia per crimini conto l’umanità – era membro del consiglio della Stella Rossa e arruolò personalmente Arkan al fine di trasformare una tifoseria violenta ma disorganizzata come quella della Stella Rossa, in un ulteriore braccio armato serbo in preparazione della guerra imminente.
Arkan, dal canto suo, pur non avendo mai nutrito alcun particolare interesse per il calcio, approfittò della crisi politico-sociale in atto in Jugoslavia per fare il definitivo salto di qualità ed entrare nei palazzi del potere. Si presentò allo stadio Marakana di Belgrado una sera di febbraio del 1989 ai Delije – gli eroi, ultras della Stella Rossa – proclamandosi loro leader e divenendo Presidente della Stella Rossa Fan Club. Non perse tempo e organizzò i Delije come una milizia paramilitare, imponendo un ordine da gruppo d’elite dell’esercito: basta alcool, scazzottate, barba incolta e capelli lunghi. E pian piano fece della curva della Stella Rossa il nucleo di pretoriani del suo esercito personale.
Mancava solo il battesimo del fuoco per la nuova formazione militare, ma la data giusta non tardò ad arrivare. Il 13 maggio 1990 si giocava Dinamo Zagabria vs Stella Rossa, partita ininfluente ai fini del campionato (la Stella Rossa era già campione), ma carica di significati, poiché una settimana prima, nelle prime libere elezioni tenutesi in Croazia, aveva vinto il partito di Unione Democratica di Franjo Tudjman, acceso nazionalista dall’ondivaga storia politica che diventerà di lì a poco presidente della Croazia.
A questo punto diventa importante contestualizzare il periodo, dato che la Jugoslavia stava letteralmente andando in pezzi: Slovenia e Croazia spingevano per la secessione, Milosevic aveva in mente il sempiterno mito della grande Serbia, una crisi economica senza precedenti aveva fatto schizzare l’inflazione a livelli mai raggiunti e gli occhi dell’Europa erano tutti concentrati sull’ imminente riunificazione tedesca e sulla tenuta dell’ormai morente Unione Sovietica.
Questo per riassumere il clima in cui, il 13 maggio allo stadio Maksimir di Zagabria, si giocò Dinamo vs Stella Rossa. Arkan preparò tutto nei minimi particolari, trasformando degli energumeni da stadio in una falange pronta a combattere per la causa serba e, da buon direttore di orchestra, si presentò allo stadio vestito di tutto punto in giacca e cravatta. I tifosi-soldati della Stella Rossa entrarono a Zagabria con l’idea di devastare tutto ciò che gli si parasse davanti, entrarono in contatto con gli ultras della Dinamo, i cosiddetti Bad Blue Boys e, una volta dentro lo stadio, iniziarono a sradicare i seggiolini, lanciandoli in campo verso i giocatori della Dinamo. I Bad Blue Boys reagirono lanciando pietre. E di lì a poco le tifoserie si sarebbero riversate in campo dando vita a una vera e propria battaglia. Negli scontri rimase coinvolto anche il giovane e promettentissimo capitano della Dinamo Zagabria, Zvonimir Boban, al quale lo scontro con un poliziotto, reo di aver malmenato un tifoso della Dinamo, costerà una lunga squalifica che lo estrometterà dal campionato del mondo che di lì a poco si sarebbe tenuto in Italia. Gli scontri causeranno la devastazione di alcune zone di Zagabria e il ferimento di più di cento persone. Quegli stessi tifosi, che si fronteggiarono scandendo fiumi di retorica nazionalista, ancora non sapevano che di lì a un anno si sarebbero incontrati nel campo di battaglia di Vukovar. Quel giorno fu il primo atto della tragedia balcanica. La guerra scoppiò al Maksimir.
Un mese dopo, in un clima di forti contrasti andrà in scena l’atto finale della nazionale jugoslava nel mondiale italiano. Una squadra composta da elementi di assoluto talento: dai croati Suker, Jarni, Prosinecki e Boksic, passando per il bosniaco Safet Susic e lo sloveno Katanec, per arrivare al serbo Stojkovic e al macedone Pancev e per finire al montenegrino Savicevic. Una rosa ricca di tecnica e fantasia ma che per tutto il mondiale venne sottoposta alla pressione proveniente dalle varie repubbliche della federazione. Fu solo grazie al lavoro dell’allenatore giramondo croato-sarajevese Ivica Osim, che cercò di catalizzare le pressioni e le critiche dell’opinione pubblica, se quel gruppo di ragazzi prima ancora che calciatori, non implose su se stesso, venendo poi eliminato ingiustamente ai quarti di finale per mano dell’Argentina del Pibe de Oro, dopo una partita fortemente condizionata dall’arbitraggio e in inferiorità numerica per quasi 70 minuti. A riguardo è stato scritto dal giornalista Gigi Riva un bellissimo libro, “L’ultimo rigore di Faruk”, che traendo spunto dal rigore decisivo fallito dal calciatore bosniaco Faruk Hadzibegic, ripercorre la disgregazione della Jugoslavia attraverso le vicende della nazionale.
Sembrava uno scherzo del destino, ma proprio nel momento in cui la Jugoslavia iniziò a smembrarsi stava vivendo il suo momento sportivo più glorioso: dopo il mondiale di calcio, infatti, ce ne fu un altro in quell’estate del 1990. E fu di basket. In Argentina la Jugoslavia si laureò campione del mondo, grazie soprattutto all’apporto dei suoi due fuoriclasse, Vlade Divac (serbo) e Drazen Petrovic (croato), due amici oltre che due compagni di nazionale che con l’approssimarsi della guerra finiranno per non parlarsi più. L’anno successivo la Jugoslavia di basket si confermerà campione d’Europa a Roma. E nel tennis la giovanissima Monica Seles raggiunse la vetta del ranking WTA a neanche 18 anni agli inizi del 1991.
E il calcio? L’edizione 1990-1991 rappresentò l’ultima Prva Liga della storia, l’ultima con le squadre di Croazia, Slovenia e Bosnia Erzegovina. Sotto traccia covavano però ormai chiari e irreversibili venti di guerra e odio etnico. In ottobre Arkan fondò le famigerate Tigri, composte da Delije della Stella Rossa e anche da ultras del Partizan e da veri e propri criminali comuni che, da buon talent scout, reclutò in giro per il paese oltre che nelle carceri. Con il tacito consenso di Milosevic, sempre più ansioso di muovere guerra contro croati e sloveni, a loro volta in procinto di dichiarare l’indipendenza. Milosevic sfruttò i media a suo favore, riuscendo a inserire anche il motivo religioso all’interno del suo piano di espansione: una Croazia cattolica non poteva coesistere con una Grande Serbia ortodossa. Nacque una campagna di manipolazione delle notizie, volta a colpevolizzare quelli che definiva “ustascia” croati, attribuendo loro fantomatici massacri che avrebbero presupposto la necessaria autodifesa serba. Il 1991 iniziò con l’opinione mondiale concentrata sulla prima guerra del Golfo e con le televisioni che mostravano i bombardieri americani su Baghdad, i pozzi petroliferi in fiamme e l’operazione Desert Storm. Fu la prima guerra con una copertura mediatica pressoché totale e l’Europa aveva a che fare con la difficile riunificazione tedesca e con francesi e inglesi preoccupati per la ricostituzione del gigante economico teutonico. Ciò che stava covando nei Balcani suscitava poco interesse, anche se ormai era chiaro che il punto di non ritorno era già stato superato.
Il casus belli si presentò il 19 maggio quando la Croazia votò il referendum per l’indipendenza dalla Jugoslavia. Fu il definitivo segnale di rottura col passato. Proprio nel momento di maggiore criticità, il calcio – ancora per poco – jugoslavo visse il suo momento di massima gloria: a Bari il 29 maggio 1991 la Stella Rossa fu la prima e unica squadra balcanica a salire sul tetto d’Europa, battendo ai rigori l’Olympic Marsiglia dell’ex stella Stojkovic nella finale di quella che ancora si chiamava Coppa dei Campioni.
La situazione precipitò il 25 giugno, quando Slovenia e Croazia si auto-proclamarono indipendenti e la guerra scoppiò per davvero. In Slovenia durò solo dieci giorni, in Croazia, invece, sarà diverso. Sarà un massacro. L’anticamera di ciò che dal 1992 al 1995 accadrà in Bosnia Erzegovina. I serbi attaccarono la Slavonia, regione croata ai confini con la Serbia, una terra che viveva di una fiorente agricoltura e che avrebbe dovuto servire, nei piani di Milosevic, per dilagare in Croazia fino all’Adriatico. L’epicentro dello scontro fu la città di Vukovar, il cui assedio durerà tre mesi fino a novembre, quando, ridotta a un cumulo di macerie, si arrenderà all’esercito regolare e alle Tigri di Arkan, che si distingueranno per atrocità di ogni genere, perpetrate anche a danni di donne, anziani e bambini. Quella che diventerà famosa come pulizia etnica.
Non fu un caso se al ritorno dalla trionfale conquista della Coppa Intercontinentale, nel dicembre 1991, i giocatori della Stella Rossa venissero accolti all’aeroporto di Belgrado proprio da Arkan in persona, in veste di capo dei tifosi della squadra. Con aria teatrale, ricevette tra le braccia la coppa e donò a ciascun giocatore una zolla di terra di Slavonia e la promessa di liberare il resto della regione dai non serbi. L’apice del calcio jugoslavo coincise con l’inizio della carneficina che dalla Croazia si sposterà poi in Bosnia e che finirà nel 1995 dopo quattro anni di guerra, oltre duecentomila morti e milioni di sfollati. La nazionale verrà esclusa dal Campionato Europeo del 1992, dopo che l’ONU decise di imporre un embargo finanziario e commerciale contro il governo di Milosevic. L’ultima partita giocata dalla nazionale sarà un’amichevole contro l’Olanda nel marzo 1992.
Finisce così, in maniera triste e ingloriosa, ma inevitabile, una storia iniziata nel 1920. Come ovvio, in quei giorni il calcio passò in secondo piano di fronte al massacro che si stava compiendo davanti agli occhi del mondo e di un Europa che, allora come, oggi preferisce girarsi dall’altra parte.
Bibliografia
Dio, calcio e milizia – Diego Mariottini (Edizioni Bradipo Libri)
L’ultimo rigore di Faruk. Una storia di calcio e guerra – Gigi Riva (Sellerio Editore)
Le guerre jugoslave – Joze Pirjevec (Einaudi editore)
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