“…dovrei parlarti della Berenice nascosta,
la città dei giusti,
armeggianti con materiali di fortuna
nell’ombra di retrobotteghe e sottoscale…”
Italo Calvino, Le città invisibili
Non verrà mai affrontato con la giusta profondità quanto pochi metri di erba sintetica abbiano ucciso un quartiere. Non nel senso stretto, ovviamente, nessuno ci ha mai rimesso la pelle e, anzi, si potrebbe dire che abbia salvaguardato ginocchia e palmi delle mani da sbucciature lunghe una stagione. Ma da quando il nostro piccolo campetto di lunghezza irregolare, larghezza irregolare, terreno irregolare, ingoiato dai palazzi ha subito la fascinazione del lifting, e da quando una rete di recinzione ha smesso di avere la funzione di non far allontanare troppo la palla per assumere quella di non permettere l’accesso a chi non avesse pagato una quota, un’intera confusa nebulosa di ragazzini ha smesso di scorrazzare pallone sotto braccio per il quartiere. I più anziani possono anche dire che, grazie alla privatizzazione di un campetto e ai numerosi cartelli sparsi per le piazzette di ogni palazzo, che severamente proibivano il giuoco della palla, sono cessate le rivalità tra i diversi civici. Quelle dei più giovani, ovviamente. I più grandi, invece, hanno mantenuto sempre il diritto a divertirsi rigando le macchine del vicinato avverso e indirizzando i mortai alle finestre dirimpetto nelle rese dei conti della notte di capodanno. Le rese dei conti giovanili, no, quelle hanno finito per essere irrisolte.
Spanciato fuori dai centri concentrici che, a poco a poco, hanno sviluppato la città stava il mio quartiere, dove le parrucchiere in età da marito sposavano elettricisti dello stesso quartiere, dove il barbiere non era un semplice barbiere, ma si preoccupava di imbastire il totonero di tutta la strada, quell’unica strada che collegava il quartiere al resto del contesto urbano, la cosiddetta città appunto. I lunghi inverni passavano scanditi tra il vento e la pioggia delle strade e qualche ora sui banchi a sperimentare i primi gesti di vita educata; il resto era la televisione, il libro aperto per interi pomeriggi sul tavolo della cucina e il sognare ad occhi aperti di avere quattordici anni e un motorino scassato. Un appuntamento dopo l’altro, dai primi bagliori della mattina al rabbuiarsi della sera. Poche certezze avevamo invece dei nostri pomeriggi estivi, coi genitori al lavoro e noi a dover far passare le ore attendendo la sera. Una di queste è che alle cinque sarebbe arrivato Manlio.
Se dovessi dire quel che ricordo di lui, solo pochi tratti mi rimangono alla mente: i capelli sale e pepe, piccoli occhi stretti a sormontare un naso poco pronunciato, una pancia a cocomero e scarpe inadatte. Il tempo passava rincorrendo un pallone e i piedi di Manlio erano sempre chiusi dentro a marroni mocassini consumati. Poteva avere tra i trenta e i quarant’anni, difficile darne un’età per l’occhio di un ragazzino non adatto a questo tipo di considerazioni.
Di lui non ricordo la voce, ed è possibile non l’abbia mai sentito parlare. Arrivava, si rifacevano le squadre, un sorso alla fontanella e si riprendeva a giocare. Niente di più semplice, nessun bisogno di parole e di contestazioni superflue. Nessuna curiosità. L’importante era far correre un pallone, azzardare un dribbling, la gioia di un goal. Manlio stava in difesa e, nonostante non avesse gran tecnica né fiato, era ambito, riconosciuto come veterano del campetto. Solido e invalicabile.
Il gioco era interrotto solo al calar del sole, o ai sette rintocchi serali che permettevano di evitare rimproveri e arrivare in tempo a casa per la cena. Le nostre vite, le nostre e di Manlio, si separavano lì. Varcate le recinzioni, noi proseguivamo per la strada principale, lui imboccava un vialetto che penetrava tra la vegetazione. Avremmo aspettato fino alle cinque del giorno successivo per rivederlo spuntare dalla stessa via senza esserci dati mai un vero appuntamento.
«Ciao Manlio».
« …».
La stagione del pallone si chiudeva sempre alla stessa data, 10 settembre. Quel giorno nessuno avrebbe potuto mancare. Era la partita che a malincuore ci avvertiva dell’inizio della scuola, quella in cui si dava tutto. Squadre, fontanella, vento caldo, pallone in mezzo al campo. Tutto pronto. Come ogni giorno dei due mesi precedenti. Tutto andava come doveva andare, la fronte imperlata di sudore e il piacere della fatica e del fiato corto: che era il piacere di tutti e che spazzava via, per il tempo di un’azione, i palazzi dalle nostre teste e apriva sprazzi di cielo.
Poi quello che non ti aspetti. A un certo punto Manlio ne esce con un «uozzannà!» e, palla al piede, scarta a destra e a testa bassa punta la porta avversaria. Avanza venti, trenta metri e poi il tiro, quasi casuale, non voluto, senza slancio, col piede a martello a incocciare il pallone con la punta delle dita a formare una parabola inadeguata, fuori tempo e imparabile. E di nuovo la stessa espressione: «uozzannà!», ancor prima che il pallone stonasse contro la rete metallica, a finire la sua corsa dietro la cornice dei pali. Non un’esultanza, solo un timido secondo in cui le braccia imbarazzate slanciano dalle spalle, le mani ad accarezzare il cielo, gli occhi increduli fissi sulle punte dei piedi, prima del ritorno nella propria metà campo. Camminando spalle alla porta offesa. Eloquente come un predicatore, espressivo come un poeta, noi tutti capimmo che, schiuse per la prima volta di fronte a noi quelle labbra per fare uscire quella strana parola, ne sarebbe uscito un guizzo. Dietro quell’unica parola, forse la storpiatura di chissà quale espressione inglese sentita chissà dove, un mondo di desideri, nati nella penombra di quella vegetazione che lo fagocitava ogni sera alla fine di ogni partita. Passammo pomeriggi interi in congetture, a cercare di capire cosa avesse voluto veramente dire. Il tormentone che rese un poco più interessante la successiva stagione invernale. Non pronunciò mai un’altra parola. E forse non pronunciò neanche quella.
A girare per il quartiere, in questi anni, qualcuno avrebbe dovuto incontrarlo. Almeno una volta, per caso, sull’autobus che va sferragliando su e giù per quell’unica strada che collega il quartiere al resto della città. E invece, dopo un lungo inverno ripiegati sui banchi di scuola, al risveglio dell’estate nessuno l’ha più rivisto. La gente dice che i matti a volte non li si vede più. Una categoria che nel mio quartiere è sempre stata ampia. In verità non ho mai sentito nessuno chiamar matto qualcuno, al più si usava il dialetto sciachelo, parola che assumeva il significato sfumato e affettuoso di chi, trapiantato, la usa come lingua acquisita. Si era tutti parte di un paesaggio urbano in cui eravamo immersi. Sono i dottori a decidere se uno è matto oppure no: noi vivevamo ognuno con le proprie stravaganze, alcune più marcate di altre. Franco che saliva e scendeva il quartiere col suo enorme pancione, la pipa, il borsello e la sua litania interrotta solo per salutare conoscenti. Qualcuno diceva che nel borsello conservasse una pistola e per questo incuteva ancor più timore reverenziale di quello che normalmente si riserva alle persone strane. Il barbuto Ermanno, corpulento e anziano, con la sua camicia a quadri fuori moda e fuori stagione, era difficile non incontrarlo alla solita fermata dell’autobus a chiedere venti centesimi ad ogni passante. Teschio invece lo si sentiva arrivare da lontano, sulla sua Ape arrugginita che gli serviva a raccogliere ogni tipo di rottame ferroso trovato per la strada. La leggenda voleva che il soprannome derivasse da una placca in metallo impiantata sulla testa e nascosta dai folti capelli corvini. Un giorno non lo si è più visto arrancare sulle tre ruote: qualcuno dice che, nella notte, sulla sua inseparabile Ape, avesse confuso i fari di un camion per due motociclette e avesse provato a passarci in mezzo.
Miriam, invece, la si vede ancora in giro, il vecchio viso cadente reso lucido dalla pesante cosmesi, che percorre avanti e indietro dall’alba al tramonto l’intero quartiere con al seguito il suo carrellino ingombro di sacchetti di plastica all’apparenza vuoti. Manlio forse era considerato matto perché, così adulto, preferiva passare i pomeriggi a correre dietro ad un pallone in compagnia di ragazzini. O forse era strano per tutto ciò che ci separava una volta imboccato il vialetto. Con le tasche troppo vuote per mettere insieme il minimo gruzzolo per qualche ora del nuovo campetto, i nostri pomeriggi calcistici sono passati dalla ghiaia all’asfalto, clandestinamente, andando a diradarsi col passare dei mesi. Manlio deve aver fatto la stessa scelta: si sa, il mocassino scivola sull’erba finta.
di Simone Tallone
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