A Laigueglia, ad agosto, il sole è cocente: porta le antiche piastrelle di coccio della piazzetta del Bastione a una temperatura di quattrocento gradi sopra il punto di fusione del tungsteno. La piazzetta, di forma vagamente trapezoidale, è circondata da un basso muretto, su cui si potrebbero tuttora rilevare abbondanti tracce di DNA a causa di incontri ravvicinati tra le nostre ginocchia e le pietre del muretto stesso avvenuti ai tempi dei primi squallidi e molto più che deludenti tentativi di stare in equilibrio sulla bicicletta, ed ha sempre rappresentato il nostro campetto da calcio privato. Nei primi anni ’90 non c’era ancora quella meravigliosa colata di cemento dietro la chiesa, meraviglia che avrebbe sublimato il concetto di abusivismo edilizio di campetto dell’opera parrocchiale; c’erano solo “i grandi” che giocavano in spiaggia, piantavano due remi di una barca di pescatori in acqua (all’insaputa di questi ultimi, che alla scoperta dell’utilizzo improprio delle proprie pagaie si incazzavano sbraitando minacce e insulti al clero in dialetto), per formare una sorta di porta, e poi si adoperavano disperatamente in evoluzioni acrobatiche per ammaliare le ragazze che passeggiavano sul molo, nel misero e quasi sempre vano tentativo di rimorchiare una “becciata serale” (per estensione e in senso lato, bacio alla francese in dialetto ligure). Di conseguenza, a noi non restava che trovare rifugio nel nostro campetto personale, la piazzetta, che fin da piccoli ci aveva fatto da tata, con quegli strani tombini disegnati come stretti labirinti di piccoli rombi di metallo, perfetti per le nostre biglie colorate e la nostra voglia di “schiccherarle” l’una contro l’altra. La piazzetta è a pochi metri dalla spiaggia e dal mare e dal bar delle granite. E’ come un piccolo centro commerciale per piccoli esseri umani. C’è tutto quello che serve per la sopravvivenza e per il divertimento.
Sfortunatamente, la piazzetta è rivolta verso est. Il sole, quindi, imperversa per tutta la mattina e il primo pomeriggio, rendendo impossibile lo spostamento di qualsiasi piede della dimensione variabile tra il numero 32 e 35, privo ovviamente della propria ciabatta, lasciata chissà dove in un angolo sperduto della spiaggia.
Il più potente alleato della voglia di giocare in piazzetta è il grosso edificio della farmacista, in quanto si sosteneva che la farmacista possedesse l’intero ultimo piano di una delle case più belle del paese. Il palazzo di quattro piani sarebbe stato il primo a proiettare ombra sul nostro campetto. In sostanza, l’edificio fungeva per noi da gigantesca meridiana, il che ci aveva sostanzialmente resi dei piccoli fanatici di astronomia, seduti sulla panchina a guardare con un occhio chiuso (come dei piccoli sestanti viventi) la linea d’ombra raggiungere la piastrella vicina al muretto, che potesse finalmente dare il via libera ai nostri piedi senza diventare dei piccoli emuli di Mino Damato.
Eccoci quindi padroni della piazzetta, finalmente pervasa da fresca ombra, liberi di poter cominciare la nostra partita. Pallone, ovviamente, il Tango di plastica, con i suoi indimenticabili triangoli sinuosi a dividere gli esagoni bianchi, comprato con la classica colletta, quasi sempre da 1000 lire a testa. La piazzetta da un lato è aperta verso il molo e dall’altro è delimitata dal bar Spinnaker, originalissimo nome per un bar sulla spiaggia. Il padrone era il classico antagonista da fumetto: grasso, brutto, antipatico, ovviamente contrario al gioco in piazzetta. Purtroppo, la nostra porta era proprio adiacente al bar. E non c’era nulla che ci potesse spostare da lì. La porta, per la gioia dei feticisti della semantica, era proprio una porta. Una grossa porta verde di un magazzino di pescatori, alta e larga proprio quel che serviva per poter raffigurare una porta del Santiago Bernabeu o del Maracanà. A seconda del numero di partecipanti, variabili da 2 ad una dozzina di bambini scalpitanti, si decideva il da farsi per quanto riguarda le regole del gioco. Il numero dispari di partecipanti, a volte, permetteva un portiere fisso e sfide due contro due o tre contro tre. Il numero pari, invece permetteva quasi esclusivamente il nostro gioco preferito, per alcuni chiamato Olandese, per altri Tedesca; insomma, quel gioco chiaramente di origine nordeuropea, per cui si deve concludere a rete solo al volo, e ogni giocatore parte con un punteggio, uguale per tutti (tranne per il primo portiere, che di solito iniziava con un paio di punti in più), e ogni volta che chi sta in porta subisce un goal, il giocatore vede calare il proprio punteggio. A seconda della parte del corpo utilizzata per segnare, si assegna al gol un punteggio solitamente crescente quanto più la parte del corpo sia anomala nel regolare giuoco del pallone.
Tutto sommato un processo democratico, la scelta del gioco, a meno che la colletta per l’acquisto del pallone non prevedesse un azionista di maggioranza, che, a quel punto, forte del possibile ricatto la palla è mia e quindi decido io, sarebbe stato l’unico con il potere esecutivo.
Spesso e volentieri, comunque, la scelta ricadeva sull’olandese (o Tedesca, che dir si voglia), in virtù delle regole abbastanza semplici, della dinamicità del gioco e della possibilità di includere chiunque. Una delle cose più interessanti del gioco era la stereotipicità dei giocatori:
- quello che vuole sempre cominciare in porta (perchè così inizio con più punti) è di solito quello che più sbruffone, spera ardentemente che qualcuno calci subito fuori dallo specchio della porta verde, in modo da poter prendere posizione tra i giocatori di volo con il punteggio maggiore.
- quello che non tira mai, il democristiano dell’olandese, è un po’ il personaggio che cerca di stare nell’ombra, che vuole fare il fantasista, l’assist-man, ma che sotto sotto ha una paura fottuta di mettersi tra i pali e subire le ritorsioni di quelli che invece tirano sempre.
- quello che tira sempre. a cui non importa se la palla è a due metri di altezza o a due centimetri da terra, a un decimetro o a dieci metri di distanza dalla porta; quello che tira sempre provvederà sempre a calciare con una potenza sovrumana da qualsiasi distanza, creando animosità e tensioni all’interno del gruppo dei giocatori, specialmente tra i misuratori.
- i misuratori sono quelli che misurano con precisione nanometrica la posizione tra il punto del tiro e la porta, calcolando naturalmente la velocitaà del pallone, la tensione superficiale delle gocce di umidità sulle mani del portiere (di solito sono scarsi portieri che hanno solo il timore di essere centrati dal pallone), la pressione dell’aria all’interno del pallone, e di conseguenza tutte le possibili conseguenze del potenziale infortunio causato dall’incontro ravvicinato pallone-faccia. Solitamente hanno anche buffi occhiali rotondi e assomigliano a Dilbert.
- quello che cerca per forza di segnare con l’anca, la spalla o la natica, o qualsiasi parte del corpo che permetta un malus di almeno cinque punti. Diventa necessariamente esperto di anatomia, per poter discutere in maniera molto accesa, spesso e volentieri con il portiere che ha subito il goal, del quantitativo di punti da sottrarre al portiere in base al preciso punto di contatto tra la palla e il suo corpo.
- quello con la testa cubica, che di solito fa imbestialire gli assistman, che pennellano meravigliose parabole che si infrangono meravigliosamente sulla fronte dell’amico, ma per qualche strano motivo la palla, invece di indirizzarsi verso la porta, prende un’insolita traiettoria e mira con precisione chirurgica il frullato della signora milanese al bar Spinnaker.
- quelli della sezione salvamento sono quelli che appena vedono in pericolo un frullato, una coppa Antille, una banana split, un toast farcito o un panino valdostano, si tuffano incuranti del pericolo per anticipare che la palla si schianti fragorosamente contro un più che sovrapprezzato bene di consumo (perchè si paga anche la vista in Liguria), nel tentativo di non svegliare la bestia feroce dormiente, ossia il principale del bar e il suo coltello da ora te lo buco.
- quelli non abbastanza bravi della sezione salvamento, ossia parte di quei coraggiosi che cercano di salvare l’incontro ravvicinato del terzo tipo tra palle di gelato e palla di plastica, ma che nel tentativo rendono il tutto più disastroso, riuscendo in una serie di rimbalzi e combinazioni che di solito coinvolgono un numero imprecisato di crodini, noccioline, patatine, olive, tramezzini, caffè shakerati, affogati al caffè e coppe di gelato, per finire ovviamente nelle mani del gestore del bar.
- i diplomatici, di solito i ragazzini più sgamati o furbetti, che cercano di intenerire con la dialettica il bruto gestore del bar a non trafiggere con il suo triste coltello dei punti Coop la dispendiosa palla argentina. A seconda della quantità di crodini rovesciati e del numero di volte in cui il pallone sfiorava la signora del tavolo cinque, l’impresa poteva essere più o meno ardua, ma molto spesso si finiva con il gestore che rifiutava l’accoltellamento e lasciava intendere che sarebbe stato l’ultimo avvertimento.
- il bastardo. Solitamente ce n’era sempre uno. Il bastardo era quello che si adoperava per recuperare un tiro che stava andando fuori (e di conseguenza condannava il calciatore a diventare portiere fino a che qualcuno non avesse sbagliato a sua volta), ma lo faceva fintando di calciare, lasciando rotolare la palla (nel nostro caso contro il muro) fuori dalla porta. Il bastardo era quello che faceva nascere le rivalità nel gioco e che tendeva a incattivire le ostilità tra i partecipanti.
Oltre agli stereotipi dei giocatori, le principali caratteristiche dell’olandese in piazzetta erano tre:
- chiunque passi di lì si inseriva a giocare. Non c’erano distinzioni, non c’erano barriere, non c’erano limiti. Si entrava col punteggio più basso tra i rimanenti, e si giocava come se si fosse appena cominciato. Ma soprattutto si iniziava in porta, per la gioia del portiere di turno, che di solito era il più acceso sostenitore dell’inclusione del nuovo partecipante.
- i ruoli stereotipati rimanevano sempre gli stessi, ma i rappresentanti dei ruoli cambiavano a seconda del punteggio. Si poteva passare da essere quello che non tirava mai a quello che tirava sempre e che si sentiva forte del suo punteggio elevato, e che sbagliando il tiro andava in porta, diventando istantaneamente misuratore per evitare di ricevere bordate dal portiere precedente. L’unico ruolo che rimaneva parte integrante di uno o più giocatori, era la testa cubica, che inevitabilmente era patrimonio genetico del malcapitato partecipante dell’olandese. Peculiarità della testa cubica era quella di amare i colpi di testa, nonostante la chiara incapacità nel gesto tecnico.
- L’olandese non finiva MAI, tendenzialmente a causa della caratteristica 1) (si può arrivare anche ad avere 67 partecipanti in un pomeriggio). Inoltre, non succedeva mai che un solo giocatore avesse il punteggio più alto. Di solito rimanevano, se va bene, almeno in due o tre.
Dopo ore di gioco e almeno tre o quattro interventi intimidatori del gestore del bar Spinnaker con il suo coltello dei punti della Coop, arrivava il tramonto. La spiaggia sottostante la piazzetta si liberava dei bagnanti che si preparavano alla loro serata danzante in una delle terribili e tristissime discoteche sulla costa tra Laigueglia ed Alassio. Sudati, stanchi e stremati dall’olandese, con i piedi color ebano, si decideva solitamente di risolvere la singolar tenzone ai calci di rigore.
I calci di rigore rappresentavano e continuano a rappresentare la soluzione che regala la miglior drammaticità al finale di ogni partita (eravamo tutti figli della disperazione baggesca del ’94) e di conseguenza anche alle nostre olandesi.
Le ciabatte riemergevano dalla sabbia e ci ritornavano istantaneamente per diventare i nuovi pali della porta in spiaggia. Quelli con il punteggio più alto decidevano il da farsi, gli altri, se ancora interessati, rimanevano sul muretto a commentare e a scambiarsi le figurine per finire l’album della serie A. La scelta più ardua, in caso di pari merito, era la scelta del portiere. Nel più fortunato dei casi, quando solo in 2 si contendevano il primato, non c’era bisogno di scegliere. Si tirava ad oltranza, e ognuno cercava di parare i rigori dell’altro. Nello sfortunato caso di arrivo in 3, bisognava scegliere un portiere super partes e il processo di selezione molto spesso non si discostava da una lunga seduta del Senato per la scelta del presidente di una commissione parlamentare. Trovato finalmente il prescelto, si passava alla classica serie di 5 rigori. Chi ne segnava di più vinceva, altrimenti si andava ad oltranza e chi sbagliava era eliminato. Non c’erano regole particolari, a parte l’assoluta ferrea regola del non vale la montagnola, ossia non si poteva creare una piccola piramide sabbiosa per posizionare la palla. Il portiere si incaricava della decisione di definire il tiro troppo potente o meno, sublimando il concetto di misuratore. Era tutto pronto.
Il primo tiratore, dopo aver posizionato la palla, fissava negli occhi il portiere. La tensione era ai livelli di una delle migliori sceneggiature di Sergio Leone. Partiva il fischio un po’ sputazzato di Dilbert. Ecco il primo rigore e «aaaaaaaaaaaaaaaaaaaacaaaaaasaaaa». Arrivava, improvvisamente, come da un coro di una tragedia greca, un urlo disperato di un gruppo di mamme che si presentavano sul bordo del muretto con occhi che sputavano fuoco, per la necessità di riavere la propria prole a casa in un orario consono per la cena. Le continue proverbiali battaglie tra Don Chisciotte e i mulini a vento si rivelavano bazzecole a confronto dei demoralizzati e miserabili tentativi di convinzione delle mamme dell’assoluta necessità di capire chi potesse detenere il titolo di re dell’olandese da parte di noi ragazzi. Niente da fare. Giro d’onore per recuperare magliette e canottiere, ciabatte, album e pallone.
«Domani pero’ finiamo, eh?»
«Come no»,
Ma in cuor nostro, tutti sapevamo che l’indomani, allo scoccare dell’ora precisa data dal palazzo-della-farmacista-meridiana, ci si sarebbe ritrovati tutti e magari anche di più, in piazzetta, davanti alla porta verde vicino al bar Spinnaker, per una nuova partita.
di Zeno Lavagnino
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