Subbùteo.
Alzi la mano chi nella sua vita non ha mai letto o sentito questo nome. Bene, tutti al loro posto col sorriso stampato in volto e un timido assenso col cenno del capo.
Subbuteo è calcio. Subbuteo è Inghilterra, ma anche e soprattutto Genova. Subbuteo siamo noi attorno a quei tavoli o cavalletti o in ginocchio a schiacciar omini, esaltati da un improbabile girello o un fendente imprendibile scandito dall’emulazione vocale del boato da stadio dopo una rete.
Forse non proprio tutti sanno che il termine Subbuteo (e mi raccomando pronunciatelo come alla prima riga) esiste davvero in natura e più precisamente nei testi di ornitologia: Subbuteo è il nome scientifico del falco lodolaio, che troviamo planare anche qui in Italia. Il suo inventore, tal Peter Adolph residente in Royal Tunbridge Wells, amena località del Kent in Inghilterra, era un appassionato ornitologo e sulla scia di un gioco del calcio in miniatura chiamato New Footy, inventò qualcosa che segnò intere generazioni e che continua ad appassionare oggi quelli che sono rimasti i bambini “di un tempo”. Cercò di brevettare il gioco come hobby, ma il comune sostantivo non venne accettato dall’apposita commissione brevetti in quanto troppo generico; virò quindi su Subbuteo. Da allora e per sempre il Subbuteo è quel gioco lì.
Storia a parte, grazie alla quale potremmo scriverci un libro (e ce ne sono già di diversi e molto belli), il Subbuteo è qualcosa che va oltre il semplice (si fa per dire) colpo a punta di dito. Allora erano le donne del Kent, prima in casa e poi in fabbrica, a dipingere omini uno dopo l’altro per ore e ore cercando di rappresentare via via le squadre di Gran Bretagna; oggi ci siamo noi con pennelli, stuzzicadenti e colori di vario genere a rappresentare più o meno fedelmente le nostre amate squadre. La pittura di una squadra è un rito. Ognuno segue i propri passaggi e le proprie tecniche. Le opere d’arte che vengono fuori sono da 90 minuti di applausi come direbbe Il Ragioniere.
Il rito continua una volta che la squadra scende in campo, o meglio panno. Chi lucida accuratamente le proprie basi per farle scorrere a mo’ di curling, chi invece le lascia pure affidandosi ai mitici “girelli”, chi le ordina in campo per numero (nella maggior parte dei casi rigorosamente dall’1 all’11), chi si affida alla tribunetta con settore ospiti al seguito, chi al proprio mister incarnato in un omino alto un pollice che fungerebbe da bambino in un comune presepe natalizio. A fine partita nello spirito più goliardico e infantile che ci sia ci si abbraccia commentando il risultato con qualche moviola improvvisata sul caso dubbio, finendo per mangiarsi o bere qualcosa insieme al gruppo che compone questo o quel torneo, questa o quella rimpatriata tra bambini di una volta.
Il Subbuteo, per me che lo osservavo ad altezza campo (tanto era la mia altezza quando ammiravo le gesta di papà in cucina con tanto di timer ticchettante del forno a scandire i noti 10 minuti per tempo) e che ora lo osservo e lo vivo semi ricurvo sul tavolo con annessi dolori alla schiena a fine partita, ha segnato la mia vita dapprima infantile, poi adolescenziale e ora adulta. Il Subbuteo era a Manesseno, c’erano i Parodi che per anni hanno organizzato tornei, tirato su una Federazione e importato direttamente dal Kent le squadre e tutti gli accessori. Non era insolito infatti trovare nelle vetrine dei negozi di giocattoli quelle scatolette color verde Subbuteo sperando di trovarle sotto l’albero a tempo debito.
A Genova è nato tutto. Ora, dopo gli anni bui dell’abbandono, delle diatribe sulla licenza del marchio e grazie (per modo di dire) all’avvento dei videogiochi, è rinato insieme a tante altre realtà in giro per lo stivale. Ci sono Club, si organizzano tornei amatoriali ed eventi promozionali in puro stile vintage ed è rinata pure la Federazione con tanto di titoli nazionali in palio.
Insomma il Subbuteo come ce lo ricordiamo noi non è mai morto. Così come l’amore per quel calcio. Quello che piaceva a noi. Quello romantico e antico, proprio come il Subbuteo.
Andrea Barabino
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