Lo spogliatoio è nella penombra. Si intravede il lettino per i massaggi, una sedia, una panca, i muri scrostati, la porta del bagno socchiusa. Tutto intorno il silenzio assordante del dopo match. Sulla pelle scivolano ancora gocce di sudore miste a vaselina e acqua, l’accappatoio è posato sulle spalle, i guantoni ancora indossati. Il cappuccio è calato sul volto ma resta lo spazio perché gli occhi possano guardare avanti, fissi sullo specchio. E’ il momento della verità e delle domande.
Il nastro si riavvolge e va a quel giorno in cui per la prima volta entrare in acqua era diventato pesante, poi insopportabile. Nuoto agonistico, per tanti anni. Tutti i giorni in vasca per gli allenamenti, il fine settimana le gare: un avversario invisibile, il cronometro. Fatica e rinunce che raramente venivano ripagate anche se gli altri dicevano che ero una promessa, che potevo vincere, che potevo farcela. E invece no. Bisogna essere capaci a decidere, convinti, coerenti, e a sedici anni non è facile. La scelta diventa definitiva: basta cloro. Ma per chi è abituato a produrre endorfina e adrenalina smettere così all’improvviso è uno stroke. Infatti mi manca tutto. I gesti ripetuti, l’appuntamento fisso, lo spogliatoio, i compagni di squadra, il tecnico, gli allenamenti, la borsa da fare e disfare, l’orgoglio di appartenere. Devo trovare un’alternativa.
Diventa la palestra. E’ la strada più semplice anche se non mi convince. Ne scelgo una, nel ponente della città, ci sono i corsi, la sala pesi, gli istruttori. Comincio a frequentarla, incontro un maestro di pugilato e comincia una nuova vita.
Mi alleno, tanto, preparazione atletica, poi il ring, i primi pugni, la pelle arrossata, i polmoni che bruciano, una nuova sensazione di libertà, sono felice. Intanto lavoro e continuo a frequentare il Centro Sociale. E’ lì che ci sono gli amici ed è lì che trovo l’amore. Non mi sono mai piaciute le discoteche, cerco il confronto e la progettualità. Intanto comincio a vincere: i Campionati Universitari, il Guanto d’Oro, gli Italiani. La Federazione si accorge di me e arrivano anche le prime convocazioni in Nazionale.
Il pugilato è uno sport individuale ma perché sia completo ci vuole il gruppo, qualcuno con cui condividere, la generosità. Come quella che hanno i ragazzi del Centro Sociale, tutti mi seguono, quando vado in trasferta sono con me. Oppure quella volta, quando dovevo scendere di categoria, perdere peso, un gran casino. E loro erano al mio fianco: facevamo i gradini insieme, per sudare, dimagrire, raggiungere l’obiettivo. Hanno condiviso la mia sofferenza, l’ho sentito chiaramente. Dovevo fare qualcosa per loro. Abbiamo aperto una palestra popolare di boxe: ci vengono in tanti. Ragazzi, donne, migranti, profughi, la gente del quartiere. Perché il pugilato è libertà di esprimersi, sul ring puoi essere solo te stesso, senza maschere. Qualcuno però non gradisce e io non capisco il perché. Ma noi andiamo avanti.
Questo sport è fatto così una volta che lo provi ti entra dentro. Mia mamma ha scoperto che andavo in palestra dopo tre mesi, è sempre stata della mia parte, mi ha sempre sostenuto. Ho dovuto lottare sul lavoro, e dimostrare sempre qualcosa di più per difendere la mia passione per questo sport. Sul ring mi piace giocare di rimessa, diretto destro, forse il colpo più esplosivo. Più diretti che montanti. Dicono che i miei pugni sono potenti, per me sono efficaci grazie alla tecnica, e non manca di certo la grinta. Paure? Arrivano da dentro, dal fatto di essere sicuri di essersi preparati bene. E insegnare agli altri accresce la consapevolezza di se stessi.
La strada è ancora lunga. Ci sono i pregiudizi da combattere, altro che avversari sul ring.
Mi chiamano, è il momento di andare a festeggiare, perché stasera ho vinto.
Prima di uscire dallo spogliatoio mi avvicino allo specchio, perfezionista in tutto: gli occhi azzurri leggermente truccati, un filo di rossetto sulle labbra.
Mi chiamo Italia e sono una pugilessa.
di Giovanna Rosi
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