Nel 1986, pressato dallo scrittore Gigi Riva che lo inseguiva per un’intervista, Maradona dribblò la marcatura con uno dei suoi colpi di genio: “Occupati di politica internazionale, il calcio è una cosa troppo seria“. Scrivere di fùtbol, in effetti, non è un esercizio semplice, farlo per davvero, poi, lontano da passatismi nostalgici o mirabolanti disamine tecnico tattiche, lo è ancora meno. Soprattutto se il quesito in analisi è: chi è stato il miglior giocatore di tutti i tempi? Difficile rispondere ad una domanda così delicata e soggetta per sua natura all’opinione, subordinata a sua volta all’individuo, e al tempo, dipendente da variabili che fanno del calcio un gioco mai uguale a sé stesso; ciononostante, l’indagine che James Leighton conduce in Duncan Edwards, il più grande sembra fornire una risposta alla domanda che ogni tifoso almeno una volta si è posto nella vita. Eppure il nome di Duncan Edwards non suscita le stesse suggestioni di Pelè, Maradona, Ronaldo o Messi, anzi, parafrasando le parole di Wu Ming 4, autore della prefazione all’edizione italiana del libro edito da 66thand2nd, lo scetticismo che prende l’autore la prima volta che si imbatte nella risposta di un vecchio appassionato di calcio è lo stesso del lettore che si accinge ad affrontare le pagine di James Leighton per la prima volta.
Originario di Dudley, cittadina delle Midlands con parecchie affinità alle Iron towns dell’omonimo romanzo di Anthony Cartwright, Duncan Edwards è stato uno dei Busby Babes, gruppo leggendario di giocatori che fece la fortuna del Manchester United negli anni ’50 e che, nove anni dopo la strage di Superga, verrà decimato sulla pista di Monaco di Baviera da un’analoga tragedia. Forte e ambidestro, splendido smistatore con lanci lunghi per le ali, Edwards ha ricoperto per lo più il ruolo di mediano sinistro (il classico numero 6) e, prima di Michael Owen, è stato il più giovane giocatore a debuttare con la maglia della nazionale inglese. Sciolto con la palla tra i piedi, equilibrio perfetto, carattere combattivo e gambe come tronchi d’albero, ha ricoperto in carriera quasi tutti i ruoli allora conosciuti vestendo anche la maglia numero 10 (interno sinistro), 9 (centravanti) e 8 (interno destro). Forte, dinamico, in possesso di una corsa veloce e resistente, con un tiro talmente potente da far scoppiare la camera d’aria del pallone e con una certa attitudine al goal, Duncan Edwards era quello che oggi verrebbe definito un giocatore completo. Un potenziale grezzo che balzò immediatamente agli occhi di Matt Busby, allora impegnato nell’operazione di rinascita del Manchester United, e che trovò piena realizzazione nella rosa dei Red Devils tra il 1953 e il 1958 e nella nazionale maggiore (tra il ’55 e il’58).
Quel che più colpisce delle pagine di James Leighton, però, è il metodo, il procedere scelto per dimostrare quasi geometricamente le parole che formano il titolo del libro. Lo scrittore britannico non si adopera in alcuna operazione di convincimento, non deforma mai la storia tramite la lente zuccherosa del passatismo e soprattutto non strizza l’occhio alla nostalgia dei bei tempi andati. La figura sportiva di Edwards emerge in modo oggettivo, grazie ai ritagli di giornale, alle dichiarazioni dei compagni di squadra e al ricordo delle persone che più lo hanno amato. Con precisione bonsaistica la carriera di Big Dunc viene a ricostruirsi per quello che fu negli anni ’50, fino alla sua drammatica interruzione. Agli occhi del lettore rimane così l’essenziale, quello che conta davvero per la formazione del giudizio. Duncan Edwards è stato il più grande perché “sfoggiava un’originale combinazione di fisicità, velocità, coraggio, intelligenza e talento. La maggior parte dei campioni ha parecchie di queste qualità, ma davvero pochi le possiedono tutte. E anche se le avessero, difficilmente eccellerebbero in più ruoli”.
Ma non è solo l’aspetto sportivo a formare l’immagine di Edwards nel lettore, bensì anche il tratto più umano. Figlio di una famiglia di operai, Duncan è stato un campione del popolo inglese, che amava il calcio e lo condivideva con la gente quando già era un professionista affermato; che nel bel mezzo della carriera dovette affrontare il servizio militare per due anni e che viveva la sua popolarità senza divismi o eccessi. L’unico che venga raccontato nel libro, e che fece arrabbiare Busby, fu una multa presa da Edwards mentre andava a prendere la fidanzata Molly: non aveva specchietti retrovisori sulla bicicletta!
Quel che rimane è il calcio. E l’esperienza di una vita, interrotta troppo presto. Un gioco in cui i giocatori inglesi avevano tetti salariali settimanali, in cui le partite giovanili attraevano decine di migliaia di spettatori e dove i professionisti del pallone non erano marziani distanti anni luce dal mondo reale. Era il calcio della gente, per la gente. Uno sfogo dove chiunque poteva immedesimarsi e sognare. Duncan Edwards riuscì a rimanere sempre con i piedi per terra, a restare equilibrato nonostante la giovane età e a calarsi perfettamente in questa atmosfera: fu sì un grandissimo calciatore, ma soprattutto un uomo che seppe incarnare la semplicità, la spontaneità e la vicinanza di un gioco popolare. Il libro tuttavia non tratteggia un Arcadia perduta o l’icona di un santo. Leighton, infatti, racconta senza imbarazzi il temperamento eccessivamente agonistico di Edwards e l’attitudine che spesso lo portava ad affondare i tackle, a prendersi ramanzine dagli arbitri e fischi dagli spalti. Ci sono indizi, poi, che se un famoso club avesse chiesto i suoi servigi, Edwards si sarebbe fatto tentare dal denaro più che dall’idea di vincere con il club per cui tifava!
Fino ad arrivare a Monaco, 6 febbraio 1958, e il Manchester United intero a bordo dell’aereo della Elizabethan British European Airways, di ritorno dal quarto di finale di Coppa Campioni contro la Stella Rossa di Belgrado. Bobby Charlton, sopravvissuto a quella tragedia, grande amico di Edwards e compagno di squadra, così ha dichiarato:
“chiedetemi chi è stato il più grande calciatore che abbia mai visto. Chi è stato il più grande con cui abbia giocato. O il più grande contro cui abbia giocato. Un’unica risposta: Duncan Edwards. Non chiedetemi quanto grande sarebbe potuto diventare, va oltre la mia immaginazione. Cos’è più grande di un colosso? Pensateci. E poi ricordatevi che ho giocato non solo con Best e Law, ma anche con Bobby Moore. Che ho giocato contro Pelé. Loro erano davvero grandi, ma Duncan era il più grande”
Duncan Edwards sopravvisse allo schianto e morì due settimane dopo in ospedale. Era davvero un ragazzo semplice, che amava la famiglia e il calcio. E mettendo sul piatto della bilancia i pareri collezionati da James Leighton nel suo libro, opinioni di gente come Matt Busby (che sopravvisse al disastro), Tom Finney, Bobby Robson, Don Revie, Jimmy Murphy e Terry Venables, non resta che concludere che è stato davvero il più grande calciatore che sia mai vissuto. Quando spirò, aveva solo 21 anni.
Che gran calciatore che ci siamo persi!
(cit. Diego Armando Maradona)
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