Prendi l’argomento meno narrativo che esista: le corse di cavalli. Accumula più materiale possibile sull’argomento, tanto da non poterlo quasi contenere in un unico racconto. Aggiungici l’indagine sul campo del reportage, ma con l’invadente soggettività del giornalismo narrativo, e mixa il tutto. Otterrai Cavalli di razza. Appunti del figlio di un giornalista sportivo, il libro d’esordio dello scrittore, musicista e professore universitario John Jeremiah Sullivan appena uscito (nella traduzione di Gabriella Tonoli) per 66th and 2nd.
Scrivere un libro interessante sui cavalli non è impresa semplice se si scrive per adulti – mette in guardia Sullivan. Le bestie non rappresentano buoni protagonisti, per la semplice ragione che è difficile identificarsi del tutto con loro, se non si abbiano meno di undici anni o del denaro investito nel loro successo o fallimento. Eppure dalle pagine di Cavalli di razza si scopre che le connessioni tra cavalli e umani sono più di quelle che possiamo immaginare. E se si pensa che al Kentucky Horse Park puoi vedere la statua a grandezza naturale del grande Man o’ War, il primo cavallo imbalsamato e esposto per tre giorni dopo la morte, forse non è così strampalato ritenere che anche un cavallo possa figurare come protagonista di una storia.
L’incipit viaggia sulle note del memoir, da una richiesta sussurrata al capezzale in una stanza d’ospedale. Un padre, Mike Sullivan, giornalista sportivo con ambizioni poetiche, gran bevitore e fumatore, collezionista di barzellette sconce, e un figlio, John, l’ultima occasione per condividere un dialogo col suo vecchio.
Qual era il ricordo più vivido di tutti quegli anni passati a scrivere di sport, a vederne di cotte e di crude? La mente lo porta al Kentucky Derby del 1973 e all’impresa del cavallo Secretariat. Nessuno aveva mai visto correre un cavallo a quel modo. Pura bellezza.
Sullivan parte da qui e, come se fosse una successione di appunti e approfondimenti, si immerge in un’appassionante esplorazione dall’interno del mondo dei cavalli, tra la storia, la letteratura, l’iconografia.
Il libro è un intreccio continuo di tre elementi: non facciamo in tempo ad abituarci al memoir che subito veniamo sbalzati all’approfondimento del saggio, e non abbiamo ancora placato la sete, affascinati dalla stupefacente erudizione, che approdiamo, voltata la pagina, all’indagine sul campo del reportage.
Il protagonista è ovviamente il purosangue ovvero, come recita il titolo del libro, il cavallo di razza. Razza, la cui cultura ha in sé un’unica ricerca, quella degli inizi: è la stirpe che la determina.
“Dei cavalli non puoi avere conoscenze, perché sono degli arabi”, dice il beduino Zeyd in Arabia Deserta. Ed è dal 786 d.C. che gli arabi registrano il pedigree dei cavalli. Ci vollero mille anni perché gli inglesi si mettessero in pari, con la prima edizione, nel 1791, del The General Stud Book di James Weatherby, un albero genealogico che comprendeva tutti i purosangue inglesi noti in Inghilterra, facendoli risalire ai leggendari stalloni d’Arabia. Essere un purosangue “accettato” significava figurare nello Stud Book.
Potrebbe essere un fatto di poco conto se lo Stud Book di Weatherby non precedesse di 35 anni la prima edizione del Peerage di Burke, repertorio delle famiglie nobili del Regno Unito. In altre parole esisteva un registro ufficiale dell’aristocrazia equina prima che ne comparisse una degli esseri umani.
Dal pensare all’allevamento dei cavalli come a un modello sul qual adattare le pratiche riproduttive dell’uomo alla tendenza di alcune fantasie eugenetiche di primo Novecento buttate giù nelle ore libere di una vacanza, vantandosi di non aver mai aperto il saggio sugli ibridi vegetali di Mendel, il passo è breve. E nella migliore delle ipotesi porta a raccomandazioni affinché i fantini, per non rovinare la progenie, non sposino donne grasse!
Ma la vena narrativa non si esaurisce qui e alle accurate ricerche si alternano lampi di New journalism, dato che Sullivan tasta con mano il mondo delle corse.
Così dedica tre giorni (e non tre giorni qualunque), il 10, 11 e 12 settembre 2001, per andare a Keeneland ad assistere all’asta degli Yearling (i giovani purosangue di un anno) che, col senno di poi, non può non concentrarsi sulla vicenda dei ricchi acquirenti sauditi che popolano l’asta.
Ovviamente d’obbligo è anche assistere al Derby di Louisville. E ad affascinare il lettore non è tanto il singolo evento quanto il contesto: le celebrità insospettabili che popolano le tribune; il pubblico che prima della corsa canta l’inno My Old Kentucky Home, in una versione rimaneggiata, meno razzista, con un verso modificato, ma che non si rinuncia a cantare tra sguardi d’intesa e risolini.
Si torna da quest’originale viaggio per non iniziati nel mondo dei cavalli quasi storditi dalle informazioni e dai preziosi aneddoti, ma soddisfatti dalla pienezza dell’esperienza in cui ci ha condotti un autore che può essere tranquillamente inserito nella grande tradizione del giornalismo narrativo, accanto ai nomi di Tom Wolfe, Joan Didion, Norman Mailer e David Foster Wallace.
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Ho finito per smettere di contare le occasioni in cui ho pensato tra me e me: «Qualcuno dovrebbe scrivere un libro su questo argomento (intendendo, per esempio, la storia dei primi fantini neri americani, o qualche altro tema astruso che mi rallegravo di aver scovato), per poi scoprire, la volta successiva che entravo in biblioteca, che qualcuno in effetti il libro l’aveva scritto, e un libro di prim’ordine.» – Scrive Sullivan prima di snocciolare le sei pagine di bibliografia che chiudono il libro.
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