Domenica 24 novembre presso il Luzzati Lab alle ore 12 avremo l’occasione di fare una chiacchierata sul tennis con Matteo Codignola, editor e traduttore per Adelphi che presenterà il suo nuovo libro “Vite brevi di tennisti eminenti“ nell’ambito di Mizar, la boutique corsara dell’editoria indipendente nata dalla collaborazione tra Fondazione Luzzati Teatro della Tosse, Edizioni Sido e Libreria falsoDemetrio (e realizzata con il sostegno di Goethe-Institut Genua).
E’ esistito un tempo in cui i match di tennis erano performance teatrali, i campioni buttavano via i set riusciti male e c’era chi beveva cognac al cambio campo al posto della volgare acqua. Alcuni tennisti come Torben Ulrich – padre del batterista dei Metallica Lars – hanno cercato per tutta la carriera il suono perfetto dell’impatto della pallina con la racchetta, altri come Beppe Merlo invece coltivavano l’assenza di suono giocando con racchette dalle corde poco tirate. Se è vero che, come ammette lo stesso Codignola, non è possibile rendere su carta la fluidità dei movimenti che rendono il tennis ad alti livelli una specie di danza, è altrettanto evidente come le vite brevi dei tennisti eminenti ci restituiscano il quadro vivo di un tennis superato dal tempo ma i cui protagonisti sono stati in buona parte parte dimenticati senza che venisse reso loro il giusto riconoscimento.
Fino al 1968 con l’avvento dell’Era Open dilettantismo e professionismo erano due mondi separati, con gli attuali quattro Slam che servivano da trampolino di lancio per entrare nel circuito dei Pro, dal momento che la regola cardine del dilettantismo (quello che oggi giorno grossomodo equivale al circuito ATP) imponeva che non si percepissero guadagni, al massimo rimborsi spese o poco più. L’intuizione di Jack Kramer, padre padrone del tennis moderno la cui figura campeggia impeccabile e sorridente nella copertina del libro di Codignola è stata quella di trasformare un circuito composto dai migliori tennisti in circolazione – che già esisteva dai tempi del mitico Bill Tilden negli anni Trenta ma che era più simile ad un tour bus – in una macchina ben oliata. Il trait d’union tra il vecchio professionismo e l’Era Open è stato in un certo qual modo il grandissimo Pancho Gonzales, tennista autodidatta, genio anarchico e anticonformista per eccellenza che per quasi vent’anni tra il 1949 e il 1968 è stato senza dubbio il più forte del mondo, battendo chiunque gli si presentasse davanti e portando il tennis d’allora a un livello fino a quel momento mai visto. Peccato che il passaggio al professionismo voleva anche dire sparire al grande pubblico per andare a rinchiudersi in una prigione dorata popolata da un numero ristretto di tennisti, caratterizzata da importanti guadagni ma il cui rovescio della medaglia erano le cento e più partite l’anno in giro per gli Stati Uniti e sempre contro lo stesso avversario: una specie di incubo.
Tra giocatrici spie di guerra, tennisti musicisti, soldati, campioni di hockey, esistenze altalenanti tra la gloria e la polvere “Vite brevi di tennisti eminenti” ha il pregio di non farsi ingabbiare in un genere specifico, dando la possibilità al lettore di affezionarsi a uno o più di quei tennisti (e tenniste) eminenti e dimenticati. L’intento del libro è allo stesso tempo quello di andare più a fondo, per ritrovare le tracce indelebili che il tennis sedimenta nella mente di chi lo gioca, quella persistenza che riaffiora anche a distanza di anni come nel caso del grande tennista cecoslovacco Jaroslav Drobny il quale, una volta ritirato dal circuito aveva aperto un negozio di articoli sportivi a Londra e che ” in genere rimaneva nel retrobottega, ma se qualcuno voleva un consiglio per una racchetta arrivava subito. I clienti trovavano normale che un campione di Wimbledon li ascoltasse parlare per mezz’ora del loro tennis. Quello che non finisce di incantare è che lo trovasse normale lui.”
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