C’è chi giura di averlo visto camminare sulle proprie gambe, seppur raramente. Nel mio caso con Andrea Viola ci incrociamo spesso per i vicoli, al pomeriggio. Io poggiato su due piedi, lui su due ruote. Spesso, davanti a una birra, racconta di sé di un passato calcistico, ma difficile immaginarlo in quei panni, adesso, coi suoi programmi d’allenamento, le gare nei fine settimana e la sua vita da ciclista urbano.
Chi allora meglio di lui poteva uscirne con un libro dal titolo Bikesofia. Filosofia della bicicletta (edizioni il melangolo), un viaggio nel mondo della bicicletta – e di come vivere su una bicicletta – da leggere tutto d’un fiato, vento in faccia: proprio come prendere una discesa di slancio.
Abbiamo pensato che il miglior modo per parlarne sarebbe stato quello di chiedere direttamente a lui, al cicloautore.
“Il ciclista – come scrivi nel tuo libro – è un nome collettivo”, indica tanti tipi di persone che usano la bici. Tu che ciclista sei?
Intanto ciao Simone! E grazie per questa “intervista”. Si lo definisco “nome collettivo” perché accoglie dentro di sé una comunità di persone che ha scelto un modo diverso di spostarsi e, in fondo, anche di vivere. Tra stare seduti su una macchina o su un motorino e pedalare il tuo fisico sente la differenza, e nel secondo caso positivamente. Io mi definisco semplicemente ciclista, ma dall’esterno mi dicono che sono un ciclista a tutto tondo, perché uso la bici sia per spostamenti in città che per fare sport, un connubio importante tra ciclista urbano e agonista abbastanza incallito.
Ad occhi inesperti la bicicletta è una cosa semplice: due ruote, pedali, un manubrio. Ma che cos’è la bicicletta e quanto è importante per un ciclista conoscerla?
Mi piace definire la bicicletta un insieme di equilibri che devono funzionare simultaneamente. E’ una macchina profondamente complessa, che necessita di grande attenzione. Un solo elemento non in “equilibrio” può farne saltare l’efficienza. E’ fondamentale per un ciclista capirne i funzionamenti e saperne i componenti, perché è il mezzo che ti fa fare dei km e permette di spostarti ed è, quando sali in sella, un prolungamento del tuo corpo. Capire che c’è qualcosa che non va può aiutare a non logorarne i pezzi e tenera sempre in uno stato accettabile, parafrasando una vecchia pubblicità: “una bici è per sempre”.
In un libro sulla bicicletta non può mancare una parte dedicata al ciclismo. E’ forse la sezione del libro più impersonale, in cui passi in rassegna diverse categorie di eroi: i campioni, i gregari e le maglie nere. A chi ti sei ispirato per scrivere questa parte?
A tutte quelle figure che hanno fatto la storia del ciclismo, dagli inizi ai nostri giorni. Quando la bici si lega ad un nome in ambito sportivo diventa mito, sia essa vincente o perdente. C’è tanta letteratura su questo e ho dovuto scegliere cosa raccontare. Ma Coppi, Pantani, Malabrocca e Nibali non potevano mancare in questo affresco. Raccontare di ciclismo sportivo secondo me è una delle leve per far interessare le persone alle possibilità di questo mezzo, soprattutto in questo momento che ha una diffusione mediatica notevole, grazie anche ai campioni che utilizzano i social.
Tra i personaggi che citi non mancano le donne. Cicliste storiche come Tessie Reynolds, Annie Londonderry o Alfonsina Strada e campionesse più recenti come Diana Žiliūtė. Esiste un differenza di genere nel ciclismo?
Credo di no, nel senso che ognuno può andare in bici senza essere etichettato, e questa è già un bel punto di partenza! Esistono delle differenze a livello professionistico, ma a questo si sta mettendo mano dopo una bella lotta. Proprio le prime donne che citi tu hanno annullato quelle differenze che prima c’erano nella vita reale, e la bici in questo senso è stata veramente rivoluzionaria, forse una delle più grandi rivoluzioni del costume dall’ ‘800 a oggi.
Ciò che accomuna tutti i ciclisti, scrivi a un certo punto, è la follia. La bicicletta può essere una terapia?
A livello fisico non sto a elencare i benefici della bicicletta, a livello mentale sicuramente si. Pedalare al sole, col vento in faccia, senza meta, ha degli effetti, almeno per quanto mi riguarda, piacevolmente salutari. Quando pedali sei solo tu, ti ascolti, cerchi di capirti. Nella società odierna questo quando accade? Sempre molto raramente. Per me anche quella mezz’ora passata da casa all’ufficio e viceversa è importante perché mi permette di prepararmi e di staccare, o magari pensare a risolvere un problema. Spesso ci riesco in bici!
Tra le “follie” del ciclista c’è l’ostinazione quotidiana a portare avanti una rivoluzione contro il caos cittadino. Di quali cambiamenti necessitano i centri urbani, per incentivare l’utilizzo della bicicletta? Alcune città europee sono molto avanti in tal senso, il primo esempio che viene in mente è Copenhagen, ma com’è la situazione in Italia e nella tua città, Genova, in cui pedali ogni giorno?
La situazione è disastrosa, a parte qualche isola felice. La politica arriva sempre dopo, e pensa che la bici e le ciclabili non portino soldi ma solo aggravamenti sui bilanci. Non è così. Le stime dicono il contrario, anche solo guardando ciò che si risparmia in termini di sanità pubblica, meno incidenti, meno intossicati da smog, meno soldi spesi. In più il cicloturismo sta crescendo esponenzialmente, e solo i miopi non ne comprendono il potenziale. Le città hanno bisogno di terapie shock, è inutile stare a discutere per anni per cercare di dare un cambiamento. Come disse l’architetto della ciclabile di Copenaghen, le parole stanno a zero. Piste e corsie ciclabili, zone 30, incentivazione del trasporto pubblico con modalità di interscambio, centri totalmente chiusi al traffico, tasse esorbitanti per i SUV in città, campagne per la sicurezza e pene certe per chi non rispetta le norme. Per dirne qualcuna. Genova non fa eccezione, e anzi sta regredendo dopo un periodo interessante. Dalla recente volontà di abbattere il Carlini alla pista ciclabile di dinegro che finisce nel nulla. Non c’è visione complessiva della città ciclabile, si ragiona per pezzi che quasi mai si uniscono. Ma noi ci ostiniamo, ho iniziato 8 anni fa da solo ad andare in bici in Valbisagno, oggi siamo una decina, molto bene.
Per finire, si potrebbe dire: socialità e l’arte della manutenzione della bicicletta: le ciclofficine.
Le ciclofficine sono una realtà bella e importante, patrimonio di una città. Sono luoghi dove ancora si può incontrare gente e scambiare due parole, e oggi oltre al bar non lo fai quasi più da nessuna parte. Anzi non scambiamo più parole, ma siamo sempre arrabbiati con qualcuno. La ciclofficine diffondono una cultura, quella della bicicletta, sana e importante, non solo per chi va in bici ma per tutti, visti gli allarmi climatici che, ancora, ignoriamo.
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