“Uno…”
Luce.
“…due…”
Sono incontrovertibilmente al tappeto.
La mia guardia era ormai debole, da troppo tempo venivo sistematicamente confinato all’angolo; da diversi minuti non sferravo un attacco efficace, ciò che stavo facendo era semplicemente cercare di limitare i danni, per arrivare al suono della campana. Poi, improvviso, è arrivato quel gancio. Micidiale: un puro concentrato di potenza e precisione. Quando riapro gli occhi ciò che vedo è solo la luce abbagliante, sospesa con sapienza al reticolo di cavi metallici che attraversano il palazzetto, così da illuminare alla perfezione il ring e solo il ring. E’ la stessa luce abbagliante del sole che sorge oltre al mare, inondandolo di tremolanti riflessi, quelle mattine di estate in cui la mia quotidiana corsa di dieci chilometri finisce sull’infinito molo che comincia dove la pineta diventa spiaggia sabbiosa, per poi tuffarsi nell’acqua. Fino ad arrivare a dove la riva, se ti volti a guardarla, sembra un orizzonte lontano. Quelle mattine mi dirigo poi con indescrivibile serenità alla vicina palestra dove mi alleno, prima di entrare in fabbrica a mezzogiorno, tutte le mattine, da dieci anni. Passo in palestra più di tre ore, gli allenamenti sono massacranti, il più delle volte finiscono quando di fiato in corpo non me ne ritrovo davvero più. Ma, nonostante la fatica ed il dolore, il sacrificarmi totalmente a questo sport mi pervade l’animo di una serenità profonda e rilassante, ed il mio corpo non sente più né fatica né dolore. Mi concentro per ritrovare adesso, dentro di me, quella serenità.
“…tre…”
Sento i loro inconfondibili e deliranti cori arrivare dalle tribune, tutto il pubblico è in piedi eccitato ed urla, ma io li sento indistintamente e sorrido. So che lassù da qualche parte ci sono i miei amici, quel manipolo di scapestrati con cui ho condiviso la vita e che sono lì, ancora una volta, a cantare a squarciagola per me. Mi seguono sempre, in ogni palestra, in ogni palazzetto, in ogni città, e si divertono. Da quando il pugilato per me è diventato qualcosa in più, per così dire, di una semplice attività sportiva sono diventati i miei primi sostenitori, integerrimi fautori dell’impegno e del sacrificio: il mio, bene inteso. Perché i ragazzi continuano con la vita di sempre, dissoluta e viziosa: quella che ho deciso di abbandonare per sempre il giorno che ho stretto i guantoni ai polsi. Ho continuato a frequentare con loro il solito bar, ma, per il pugilato, ho detto addio alla bottiglia, alle droghe, alle notti a far casino senza nessun orario. I ragazzi no, i ragazzi sono quello che sarei stato io, e ne vado fiero, di me e dei ragazzi. Distolgo gli occhi dal soffitto, guardo verso destra; ora li vedo, stagliarsi nitidamente in mezzo a tutta quella moltitudine di persone: i miei amici sugli spalti, bellissimi ed ubriachissimi dietro al loro striscione consunto, che hanno portato ovunque ad ogni incontro. Anche qui, questa notte, alla sfida per il titolo nazionale.
Su sfondo bianco, con caratteri rossi, c’è scritto: “FELICEMENTE DISPERATI”.
“…quattro…”
Lentamente il mio campo visivo comincia ad arretrare, stanco; a malapena mi è possibile distinguere i colori, una fitta nebbia sembra essere d’improvviso scesa all’interno del palazzetto e con fatica riesco a focalizzare lo sguardo fino alle corde. Le corde, una corda, due corde, tre corde, chissà perché soltanto in questo preciso istante – mai prima questa immagine si era affacciata dolce alla mia memoria – mi rivedo bambino, nascosto tra il bucato, talmente basso da non riuscire quasi a toccarlo, a guardare in su e scorgere tra magliette e calzini, il viso di mia madre, i suoi lunghi capelli biondi e quegli occhi incredibilmente blu e pieni di amore. Il suo viso mi appare ora bello come mai mi era riuscito ricordare. E lei che ogni volta fingeva di non trovarmi, ed io che ogni volta ero così felice di farmi trovare, per poi ricominciare mille volte ancora. Fino a quel maledetto giorno, avevo quattro anni: fu un incidente di auto a portare via per sempre mia madre, fu da quel maledetto giorno che in casa rimanemmo soli io e mio padre.
“…cinque…”
Gli occhi mi si chiudono, non vedo quasi più nulla. Se penso a mio padre, vedo un uomo perduto nell’alcol, un violento, la causa di tutto ciò che è stata la mia infanzia: profonda tristezza e terrore, solitudine e mancanza. Beveva, beveva tanto da quel giorno. Io a volte era come se non esistessi per lui, a volte ero il perfetto sacco dove scaricare selvaggiamente la sua rabbia, a volte ero il confidente dei suoi segreti più bui e nascosti. Lavorava nella fabbrica dove lavoro io, una fabbrica che ha dato lavoro per tanti decenni alla mia città, e che quest’anno per la prima volta ha cominciato a licenziare gli operai. Morì lentamente, quasi consumandosi. Il suo ultimo Natale mi regalò un paio di guantoni.
“…sei…”
Anche le ultime energie mi stanno abbandonando, non sento il ring sotto di me, né gli odori cui sono abituato, gli occhi sembrano non volerne sapere più di riaprirsi. Però questa goccia la sento, questa goccia di sudore che si attarda sulla tempia e sembra adagiarvisi. Questa goccia di sudore che invece cade inesorabilmente a terra e mi fa pensare a tutto il sudore versato sul tappeto, a tutta la passione che questo sport mi ha trasmesso, a tutti i sacrifici, ma anche a tutte le soddisfazioni. Non voglio rinunciarci. Inspiro, espiro, riapro gli occhi.
“…sette…”
Ecco chi sta contando ad alta voce, il mio sguardo incrocia il suo: l’arbitro. Perfetta rappresentazione di quella autorità che ho sempre odiato e combattuto: le maestre, i preti, i professori, le guardie, i giudici, gli assistenti sociali, perfino il mio secondo qualche volta. Già, devo ammetterlo, non ho mai accettato che qualcuno potesse dirmi cosa fare e cosa non fare, o potesse decidere del mio destino. Così, con tutta la forza che riesco a raccogliere, sputo verso quello sguardo sperando di raggiungere il bersaglio.
“…otto…”
Esausto, appoggio la guancia sinistra al tappeto e vedo lei, la mia ragazza. Sembra urlare il mio nome disperatamente, aggrappata a bordo ring. E’ meravigliosamente bella, anche se sta piangendo ed il trucco le solca irriguardoso il viso. Io ormai non sento più nulla intorno a me, solo il battito del mio cuore che in questo momento sembra essere impazzito.
“…nove…”
All’improvviso, vivida e fulminante, mi si fissa in mente un’immagine, l’ultima: il figlio che porta in grembo. “Tocca a te ora, figlio mio, vincerai tu questo titolo. Non un passo indietro!”
“…dieci!”
Buio.
Al compagno Lenny Bottai
di Fabrizio Fiore
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