boxe_popolare

All’angolo

Tutti lo chiamavano Jack, ma non era il suo vero nome. Credo che si chiamasse Giacomo, Giacomo Edoardo Alvarez Rapetti. Era di ovvie origine italiane e di nazionalità latino America, uruguaiana, ma non lo sapeva con certezza nessuno perché lui, Jack, era un bolivarista e agli occhi del mondo voleva essere visto come appartenente dell’America latina tutta. Ovviamente quando incontrava un altro latino americano allora la sua nazionalità riemergeva improvvisamente intensissima, al punto che,  chi non lo conosceva bene, avrebbe potuto percepire un nazionalismo eccessivo. Un po’ come capita a tutti quelli che si lamentano della propria nazione in maniera assolutamente convinta sin tanto che non hanno qualche soggiorno all’estero, meglio se obbligato e non di piacere, dove immancabilmente si trasformano in grandi cultori della propria patria e dei suoi costumi. Jack faceva così. Seduto nel suo solito posto, nella seggiola spalle al muro del tavolino rotondo di alluminio, nel bar latteria all’angolo di via delle Grazie e salita del Prione, parlava a tutti di America Latina unita, di bolivarismo e di quei maledetti imperialisti (prima gli europei e poi gli statunitensi) che hanno fatto del suo paese (America latina) una miniera da esaurire. Doveva aver letto le vene aperte dell’America latina di Galeano. Se incontrava un altro latino americano allora si potevano rilevare tutte le spaccature che esistono in quel pezzo di continente americano e se, si capiva abbastanza bene lo spagnolo, ci si rendeva anche conto di come tali differenze non stessero solo all’interno di confini imposti dagli imperialisti europei, come avrebbe detto Jack, bensì nelle migliaia di culture, razze e popoli che hanno sempre abitato quelle terre. Chissà Simon Bolivar cosa avrebbe pensato di questo Giacomo Edoardo Alvarez Rapetti.

Jack aveva circa 70 anni, o almeno ne dimostrava circa 70, che poi si muovesse agile come un 50 enne, si vedeva solo quando non era seduto al suo tavolino, ma camminava o correva per prendere l’autobus al volo. Era strabiliante la naturale elasticità con cui si muoveva. Era basso e magro, anzi basso e secco, nervoso, forse era dai suoi nervi che fuoriusciva la sua rapidità nei movimenti. Sicuramente il fatto di aver fatto il pugile professionista per una vita intera deve avergli permesso una certa struttura muscolare. Eh si! Jack è stato un pugile professionista, in America latina, tanto tempo fa, e si dice che che fosse anche bravo e conosciuto; non famoso, ma conosciuto, almeno nell’ambiente. Il pugilato a detta sua era uno sport per poveri, per gente con la fame addosso, che dai campi o dalla foresta pluviale era scappata per cercare lavoro nelle grandi città e con le grandi compagnie multinazionali (che poi sono europee e statunitensi, imperialiste direbbe lui), ma che alla fine si trovava a fare a botte per un tozzo di pane. Per chi era bravo si apriva il mondo del professionismo internazionale, un sogno, come fosse la libertà dalle catene della miseria di periferia. La fame rimaneva, sempre addosso, appiccicata alla pelle come fosse l’odore stesso della persona, non sarebbe mai stato possibile togliersela neanche con la cintura di campione del mondo. Nella realtà quella fame rimaneva tanto figurata come reale: i pugili non avevano sponsor,  ingaggi, pay per view, pubblicità. Facevano a botte per quattro noci, più per desiderio di riscatto sociale e per essere riconosciuti per un loro qualche valore come persone, che per avere un riconoscimento materiale. Il pugile veniva dalla miseria materiale ma portava dentro quel fuoco di rabbia inestinguibile che lo spingeva a fare di uno sport, una lotta perpetua contro tutti, contro se stessi, contro i limiti di un allenamento estenuante e soprattutto a non mollare mai. Il pugilato diceva Jack, è uno stato d’animo. Questo è la radice della nobile arte, sosteneva Jack col suo amico Francesco, mentre stava seduto al suo tavolino nel bar latteria all’angolo di via delle Grazie e salita del Prione.

Francesco era un ragazzo di 20 anni, dread castano chiari in testa, occhi grigi e aria sveglia. Passava spesso dal bar latteria di Jack (ormai quell’esercizio commerciale si chiamava così: da Jack) perché poco sopra il Prione c’era un sorta di spazio autogestito o occupato abusivamente o dato in concessione o preso in concessione o comunque si voglia definire, dove si faceva tra le altre attività a scopo sociale anche la “boxe popolare”. Francesco aveva lì il suo gruppo di amici e con questi si allenavano tirando di pugilato. L’idea con la quale era nata la loro “palestra popolare” era di avvicinare uno sport normalmente associato a picchiatori e violenti o comunque persone che fanno della forza un punto cardine dell’interazione umana, a tutte quelle persone che invece pensano che un confronto con i propri limiti, con gli altri, in un’ottica sportiva, rispettosa, mai prevaricante o di sottomissione, fosse sano, stimolante e per fino educativo. Certo che l’approccio tecnico di una impostazione così integrante e socializzante di uno degli sport individualisti per eccellenza non era dei più ortodossi. La base sulla quale si svolgevano allenamenti e sessioni di guanti era del rispetto dell’altro e non della prevaricazione sull’altro.

Spesso Francesco e Jack passavano ore al tavolino di Jack, l’uno con una birretta l’altro con il solito latte e menta, a discutere sulla “politica” del pugilato e spesso, Francesco provava a coinvolgere Jack nella sua attività popolare ma senza mai riuscirvi. L’argomento principale che infervorava le conversazioni dei due amici era la filosofia del pugilato, oltre la sua radice di sport, ma nella sua essenza di lotta, interiore prima di tutto. Quando Jack iniziava a raccontare la sua visione Francesco non poteva interromperlo, non ci riusciva. Jack parlava di qualcosa di talmente profondo, talmente antico che per la giovinezza di Francesco era intoccabile, irraggiungibile, appena appena comprensibile. Jack raccontava di come il pugilato nascesse dalla disperazione e fosse, inconsapevole nella mente del pugile. Questi, misero, affamato, arrabbiato, spesso analfabeta e senza strumenti per comprendere un mondo che lo prevaricava senza chiedergli il permesso, in principio si trovava a lottare con il furore della disperazione fin tanto che, per caso o per fortuna, trovava o veniva trovato da qualcuno che lo indirizzava ed educava al pugilato. Allora le cose cambiavano, non troppo ma cambiavano. Il misero diventava qualcuno a cui era riconosciuta una capacità e questo gli dava un posto nella società. Il misero nessuno allora diventava quel qualcuno e avrebbe lottato come una furia per mantenere quel ruolo, sempre misero ma rispettabile, che il caso gli aveva attribuito. A questo punto il suo lavoro era il suo allenamento. Finalmente qualcuno gli aveva dato un lavoro, un posto nella società, e lui non se lo sarebbe fatto portare via da nessuno. Ogni giorno si sarebbe allenato fino a svenire dalla fatica e sul ring sarebbe rimasto in piedi fino alla morte se fosse stato necessario.

Quando Jack spiegava questi concetti Francesco rimaneva con gli occhi sbarrati e la birra calda in mano senza quasi respirare. Poi, riavendosi, faceva alcuni esempi per far capire che aveva capito citando Primo Carnera o Roky Marciano. Jack lo guardava storto, annuiva, sorrideva e poi riprendeva sostenendo come questo stato mentale non fosse legato alla fame o all’allenamento ma fosse qualcosa di più profondo nella persona, come qualcosa divenuto immodificabile. Francesco che al contrario di Jack non era analfabeta, anzi stava ancora studiando, in questi casi interveniva dicendo che quello che Jack voleva dire, forse, era che il comportamento che i pugili di un tempo avevano agito a causa dell’ambiente esterno erano diventati degli schemi interni alla persona, erano stati interiorizzati e quindi li avrebbero applicati a tutti gli aspetti della vita. In questi casi era Jack che rimaneva senza parole per la chiarezza del concetto espresso da Francesco. Era proprio così, quelle persone a forza di lottare contro qualcosa o qualcuno o se stessi, non avrebbero mai smesso di farlo. Lottare era diventato il loro modo di affrontare la vita; sempre. Francesco, orgoglioso della sua rivelazione, aggiungeva che era un comportamento che si poteva definire di dipendenza. Ovvero dell’impossibilità di fare a meno di attuare un comportamento di fronte a determinati stimoli. Era per questo che a Jack piaceva tanto quel ragazzo. Gli piaceva che avesse interesse per le persone, per la loro individualità, che volesse capirle. Di Boxe non capiva molto, ma gli piacevano le persone.

Francesco non era sempre un ascoltatore silente anzi; spesso, con due birrette in più lasciava le briglie e diceva a Jack di come oggi, il pugilato, sebbene avesse le stesse radici in quella lotta sociale di cui lui parlava, non affondava le radici motivazionali nello stesso humus di ingiustizia e degrado sociale di 50-60-80 prima. I ragazzi oggi fanno boxe perché vogliono essere fighi, vogliono essere più forti più belli più rispettati dagli amici. Vogliono il rispetto con la violenza. Sono insicuri e quindi hanno paura. Sono insicuri del loro futuro come tutti e, come tutti, hanno paura dell’ignoto. Ma invece di affrontare le loro paure, rifuggono da esse attraverso la violenza e l’aggressività che uno strumento come la boxe può insegnare. E’ per questo che oggi non ci sono grandi pugili in Italia ma solo sbruffoni. E’ per questo che bisogna fare la boxe popolare, per rifiutare questo decadimento delle relazioni sociali puntando invece sulla pratica di affrontare le paure e le frustrazioni nel rispetto e con l’aiuto dell’altro, quantunque questo sia un avversario. Jack sorrideva, ascoltava e sorrideva. Quando Francesco aveva finito aggiungeva che anche agli inizi degli anni venti la gente aveva paura dell’ignoto. Poi si salutavano e ricominciavano la volta dopo.

L’amicizia tra i due andò avanti stagione dopo stagione, autunno, inverno, primavera, estate, maturità di Francesco, meritato riposo e di nuovo inizio autunno. Poi d’inverno, Francesco andò ad abitare in un’altra città per continuare l’università, lasciando così le sue attività “sportive popolari” e, a suo malincuore, anche le chiacchiere con il suo amico Jack. Ogni volta che tornava a Genova però passava a dare uno sguardo al solito posto, nel bar latteria all’angolo di via delle Grazie e salita del Prione e spesso, lo trovava lì, nella seggiola spalle al muro del tavolino rotondo di alluminio. Approfittava sempre del fatto di non avere grandi impegni per riprendere, o ricordare, conversazioni sulla boxe, sull’America Latina, sul significato dell’aggettivo popolare e/o su quello simile o, come sosteneva Jack, più giusto di nobile: noto, di elevatezza morale, generosità e finezza di spirito.

Un giorno, dopo qualche mese di assenza dalla sua città natia, Francesco passò dalla latteria e come sempre cercò Jack con lo sguardo nella solita seggiola, non lo vide ed entrò. Ordinando una birretta al grande Pablito, amico peruviano di Jack, chiese se l’avesse visto. La risposta di Pablito, così si chiamava l’omone proprietario della latteria all’angolo di via delle Grazie e salita del Prione, fu uno sguardo allibito che durò per qualche secondo come a chiedersi il motivo di una domanda tanto scomoda quanto superflua. Poi, accorgendosi della reazione turbata di Francesco, glissò, dicendo che era da un po’ di tempo che non lo vedeva e che probabilmente aveva delle cose da fare. Francesco non insistette, Pablito era un 60enne che aveva lasciato il suo paese da ragazzino, probabilmente con un cartone legato con lo spago alla mano, mezzo cognome italiano, forse, e tanta speranza di scappare dalla miseria della sua estrazione sociale. Conosceva Jack da tanto tempo, troppo per parlare di lui con un ragazzo poco più che ventenne con la birra in mano.

Francesco finì la birra, uscì, e rimase preoccupato tutta sera. Tornò la settimana seguente, non vide Jack e non chiese nulla a Pablito. Il peruviano però, così lo chiamavano tutti, si accorse della preoccupazione di Francesco, non disse comunque nulla ma gli offri la birra con un sorriso paterno. Jack, Francesco e Pablito non si rividero più, le loro strade assai diverse, incrociate casualmente nelle infinite possibilità di un’esistenza, si divisero nuovamente lasciando qualche ricordo e un po’ di malinconia.

di Niccolò Delfino

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