I momenti che cambiano la vita si consumano in pochi secondi. Un istante, un gesto, una parola e tutto cambia. C’è un prima, un dopo e in mezzo un istante di rottura, qualcosa che modifica tutto: fermo-immagine, pausa e tutto poi è diverso. Il cambiamento, è vero, ha sempre protagonisti inconsapevoli, mai veramente pronti per quel che sta avvenendo. Ma forse il bello della vita sta proprio qua, nella possibilità di dipingere a fresco. Anche nello sport. Ed è esattamente da un momento simile che parte questo racconto: da un ring, 2 pugili e la storia della boxe.
22 novembre 1986, Las Vegas (Nevada). Trevor Berbick, detentore del titolo WBC e noto per aver sconfitto Muhammad Ali nell’ultimo incontro del grande campione, è chiamato a difendere la sua cintura. L’angolo dello sfidante, invece, è occupato da un giovane newyorkese di appena 20 anni, arrivato all’incontro più importante della sua vita con una striscia impressionante di 27 vittorie (di cui 25 per k.o). Cresciuto a Brownsville, uno dei quartieri più poveri e degradati di New York, ha vissuto i primi anni della sua vita taccheggiando, rubando e facendo la spola tra strutture correttive, riformatori e carceri minorili. All’anagrafe è registrato come Michael Gerard Tyson. Passato tra i professionisti nel 1985, Mike si è distinto per una ferocia mai vista, una crudeltà difficilmente comprensibile, ma che in realtà è la fisiologica reazione ai maltrattamenti subiti da piccolo e, soprattutto, il frutto di una lacerante insicurezza. Non ci vogliono Freud o Jung per capirlo, basterebbe sentire una qualsiasi intervista e il lieve difetto di pronuncia che gli fa sospirare la esse. Già questo sarebbe sufficiente per farsi un’idea di quali cattiverie abbia patito nel ghetto. Perché Brownsville questo era, un ghetto. Negli anni ’70 la segregazione razziale era superata solo sulla carta, di fatto gli afro-americani continuavano a vedere il benessere e il ‘sogno americano’ come una chimera irraggiungibile, qualcosa da cui erano chirurgicamente esclusi. La strada, il crimine e l’illegalità restavano l’unica alternativa alla povertà. Tyson è introverso, solitario, coltiva la passione per i piccioni (che alleva con entusiasmo sul tetto di un edificio abbandonato) e a 12 anni ha già collezionato una trentina di arresti. Il padre è un magnaccia che vede saltuariamente, mentre la madre è un ex insegnante che spesso trova conforto nell’alcool. Chi non sarebbe incazzato al suo posto? chi non prenderebbe a pugni la vita? chi non sarebbe crudele quando la posta in gioco è la sopravvivenza?
E poi l’incontro con la figura paterna che non ha mai avuto, quello con il leggendario Cus D’Amato. Il guru della boxe gli fa amare e studiare pugilato, lavora sulla sua autostima e lo convince di essere un predestinato: il futuro campione dei pesi massimi. I suoi modelli diventano Jack Johnson, il primo atleta di colore (e texano) a vincere il campionato del mondo di boxe dei pesi massimi e icona del Black Power negli anni 60/70, Mickey Walker, soprannominato The Toy Bulldog, e Harry Greb, pugile attivo dal 1913 al 1926 che seppelliva gli avversari con tempeste di pugni, da cui imiterà lo stile di combattimento veloce e aggressivo. Mike è sottoposto ad un autentico lavaggio del cervello che, se da un lato gli dà disciplina, dall’altro lo fa diventare arrogante e presuntuoso. Cus vuole un campione negativo, selvaggio e spietato e Tyson si cala perfettamente nella parte dell’arrogante sociopatico. E nel novembre del 1986, dopo anni di allenamenti incessanti, la sua vita cambia direzione.
Il primo round è un martellamento. Berbick è fermo, non si muove, diventa un bersaglio per Tyson, che inizia a colpirlo alla testa. L’obiettivo è l’orecchio: danneggiare il timpano significa compromettere l’equilibrio e avvicinarsi al K.O. A metà round il giamaicano barcolla, ma riesce a rimanere in piedi. Nella seconda ripresa, dopo 10 secondi, Mike centra il suo avversario con un destro che lo manda giù, ma Berbick torna subito in piedi e riparte all’attacco.
A questo punto Tyson segue le indicazioni del suo angolo e inizia a lavorare al corpo, fino al momento clou: colpo ai reni, uppercut (che va a vuoto) e gancio al volto. Berbick, a dirla tutta, è ancora in piedi, ma è finito. Mike gli dà una leggera spinta e va giù. Prova ad alzarsi una volta e ricade, una seconda e torna al tappeto. Riesce a rimettersi in piedi al terzo tentativo, ma è troppo tardi. Il conteggio è terminato: K.O.
Michael Tyson da Brownsvile, NY, a soli 20 anni è il più giovane campione dei pesi massimi. In questo momento la sua vita cambia: Mike diventa Iron Mike.
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