Si è concluso il campionato cestistico più importante, famoso e glam al mondo: l’NBA. Una regular season lunghissima e playoff estenuanti (durati dal 19 aprile al 15 giugno) che hanno messo a dura prova la tenuta mentale e fisica di tutti i giocatori. Anche dei migliori. Lo spettacolo non è mancato e la vittoria è andata ai San Antonio Spurs, nel remake della finale dello scorso anno contro Miami. Ma non voglio parlare nello specifico delle partite, di un disumano LeBron, di una squadra che l’anno scorso andò vicino al titolo, tanto così, prima di essere ricacciata indietro da una tripla incredibile di Ray Allen (potete leggere qui la storia delle finals 2013). Voglio parlare di un ragazzo semplice, in apparenza anche timido, che ha fatto la storia del basket.
Marco Belinelli, viene da San Giovanni in Persiceto, dove hanno tenuto aperta la bocciofila tutta la notte per vedere le sue partite, è il primo italiano a vincere un titolo NBA. E’ il primo italiano a vincere il famigerato anello. Il primo messaggio che riceve, dopo la partita, è quello della mamma: “Ce l’hai fatta.” Sono parole semplici ma racchiudono in esse un’incredibile complessità. Tutta la fatica, i sacrifici fatti, ripagati da una vittoria dolcissima, come tanto amare erano state le critiche di chi diceva che il Beli non avrebbe mai potuto avere un futuro in NBA, troppo leggero mentalmente e fisicamente. Sono solo i sogni irrealizzabili, le imprese impossibili a dare un senso alla vita; Marco non ha avuto paura di chi lo etichettava come giocatore inadatto e leggero, non ha avuto timore di chi rideva di lui: è andato avanti per la sua strada inseguendo il suo sogno, inseguendo l’anello. Come ha dichiarato Federico Buffa: “Sono molto emozionato e contento per Marco, è un bel momento per una persona che ci ha sempre creduto, in un modo che fa la differenza”. Ha trovato la sua dimensione a San Antonio con Gregg Popovich come allenatore: serviva a questa squadra un cecchino dal tiro morbido e preciso, e quel killer si chiama Marco Belinelli. Le spaziature perfette della squadra texana hanno permesso a Marco di esprimere il suo miglior basket.
La forza del lupo è il branco, la forza del branco è il lupo; ragion per cui i San Antonio Spurs sono arrivati a vincere quest’anno in maniera così netta e mai messa in discussione. Nel roster, giocatori sublimi e ottimi panchinari, rotazioni giuste e, soprattutto, un gioco corale che pare una sinfonia. Marco Belinelli, 25.2 minuti di media a partita in regular season con 11.4 punti. I numeri contano ma fino ad un certo punto: Marco è migliorato partita dopo partita, con una costanza incredibile, soprattutto in fase di non possesso e nella lettura del gioco e delle situazioni. La mano gentile l’ha sempre avuta: 48.5% da due e 43% da tre. Percentuali ottime. Minutaggio e percentuali che sono calate nei playoff come era prevedibile. Ha giocato sempre per la squadra come il Pop ha sempre dichiarato. Si è integrato da subito nel gioco dei texani e ha imparato ad adattarsi alle situazioni. Le cose migliori le ha fatte vedere in uscita dai blocchi sui tiri da lontano: lettura del gioco e del bloccante, si fa trovare sempre preparato con le mani già pronte a ricevere il pallone e a tirare, e i piedi spesso perfettamente a posto. Risultato: solo retina. Certo quando in squadra hai giocatori come Leonard (mostruosa la sua crescita), Green, Parker, Ginobili e Duncan tutto è un po’ più semplice, ma tu ci devi essere e Marco, da cinno è diventato semplicemente unBELIveable e vederlo piangere dopo gara-5, mentre si asciuga le lacrime con il tricolore, non solo mi fa emozionare, ma rende Belinelli un campione di umanità e di italianità. Marco è la prova che, facendo l’impossibile e lavorando sempre al massimo, si possono scalare le vette più difficili, conquistare trofei (ricordo che vinse la gara del tiro da 3 punti all’ultimo All-Star game) ed arrivare a mettersi al dito il tanto sognato anello. L’anello del cinno.
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