Si aspettava la pioggia, d’autunno, nei pomeriggi d’allenamento. Accompagnati al campo da genitori un po’ infastiditi, ci ritrovavamo già pronti in pantaloncini corti per non appesantirci, calzettoni slabbrati che sarebbero inevitabilmente scesi fin sotto il tallone zuppi, k-way e cappuccio allacciato sotto il mento, per quanto avrebbe retto. Pochi giri di corsa, di esercizi tecnici proprio non era il caso: il manto sintetico non era neanche nei pensieri e un palmo di fango copriva l’intero terreno, interrotto solo da pozze d’acqua che avrebbero reso le scarpe inutilizzabili per i successivi tre giorni. Veniva quindi subito il momento delle pettorine, di dividere due squadre e giocare. Giocare per scaricare una vivacità costretta otto ore dietro un banco di scuola. Agonismo spensierato. Gli attacchi erano ondate, ogni contrasto un avanzamento in trincea. Facce d’argilla.
E poi i goal.
A ogni goal tutta la squadra puntava l’angolo, nel mio enorme campo di periferia depresso di almeno 40 centimetri rispetto al resto del terreno, dove la bandierina emergeva come una boa nella calma del mare. Si ci lanciava, si ci abbracciava, il momento di massima felicità immersi nel fango, nell’acqua torbida, marrone. E a nulla valeva la strigliata di mia madre che avrebbe poi penato per lavare quelle macchie che non sarebbero mai andate via. E le magliette,quelle a contatto con la pelle, quelle che stavano sotto almeno tre strati, non sarebbero mai più tornate bianche. Perché il fango lascia tracce indelebili. E si insinua ovunque.
Genova, 2014. Nel buio della notte da dietro una finestra vedo lampi in lontananza. Non piove da qualche ora ma si aspetta la pioggia. Con ansia questa volta. Il peggio deve ancora arrivare, dicono. Il fango non è più amico. Nell’attesa che una tregua ci possa far scendere nuovamente in strada a leccarci le ferite.
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