E’ importante essere consapevoli ed avere una posizione autonoma, riguardo lo sport e non solo: serve a salvarci dall’enormità di informazioni che riceviamo ogni giorno, conservare la nostra integrità morale o più semplicemente non farci prendere per il culo.
Ricordo però un periodo lontano, vuoi per l’età o per il contesto sociale, in cui si viveva tutto con una maggiore leggerezza: se guardate al presente con ottimismo questo articolo non fa per voi, se guardate al passato con nostalgia nemmeno. Se avete le idee confuse siete i benvenuti: questo articolo non vi porterà da nessuna parte.
Avevo appena messo l’apparecchio e faticavo a masticare per via dei denti ancora indolenziti, per non parlare della difficoltà a togliere i residui di cibo da quel groviglio di fili di ferro: al ritorno da scuola mi aspettavano mio papà e mia nonna, in tivù Stefania Belmondo.
Forse non è la prima volta che lo scrivo, ma quello scricciolo biondo lo amavamo davvero: vederla soffrire come un cane in mezzo al gelo, sbavare senza ritegno e vincere fra le lacrime ci mandava in estasi.
20 febbraio 2000, Lamoura/Mouthe, Francia: 44km tecnica libera mass start, l’ultima vittoria di Stefania su quella distanza. Gara combattuta, dimenticai l’apparecchio ed i chicchi di riso in ogni dove, Stefania rimontò e staccò le altre: vinse ed urlammo come due ossessi sotto lo sguardo divertito della nonna.
Era la cosa più bella ed importante del mondo: il podio, l’inno nazionale, le lacrime. Prima di lei furono Tomba, Pantani, Biaggi e Vale Rossi, ma anche Alesi, Berger, Senna e Kristian Ghedina, bastava ci emozionassero e noi eravamo felici. Dopo Stefania gioimmo ancora, soprattutto per il ciclismo di Paolo Bettini, ma era già diverso.
Giorno dopo giorno trovavamo sempre più informazioni riguardo i nostri beniamini, potevamo sapere tutto di loro: la domenica perdeva sacralità, i giornali pure. Internet stava iniziando a rubarci la magia.
Magia era aspettare un mese intero il prossimo numero di Bicisport oppure la Gazzetta del giorno dopo, magia era idealizzare un campione, vederne solo il lato luminoso e cercare di imitarlo senza nemmeno immaginare che esistesse qualcos’altro. Magia era vivere solo di quello, perché non è che si potesse comprare ogni mattina l’intera edicola e sapere tutto del mondo intero. La mia aria era lo sport, non c’era bisogno di respirare altro.
Poi arrivarono i primi sentori che il mondo fosse invece più grande e la magia se ne andò del tutto: si può vivere anche senza lo sport. Davvero un brusco risveglio capire che esistesse un pianeta intero oltre il podio delle premiazioni. Però è così e quando lo si capisce si perdono entusiasmo, ingenuità ed impegno nella pratica, campo o divano che sia.
Mi sono estraniato per qualche anno dal pensiero critico, forse proprio cercando di restare focalizzato come un atleta che prepara la sua gara: lavoro, lavoro e lavoro, il resto non esisteva. Sono tornato alla realtà e ho trovato tutti incazzati neri, con la parola crisi sempre in bocca ed una rabbia giusta contro le istituzioni: i problemi sono altri, le priorità pure e dello sport non fregava più nulla a nessuno. Arrivo addirittura a rimpiangere le liti da bar per i rigori non concessi e le tattiche dei mister, visto che ora si parla solo di economia e finanza, capendone per altro meno che di calcio.
Ho lasciato un mondo in cui contavano solo i miei obiettivi trovandone un altro dove mi parlano solo di problemi e, per quanto abbia provato a fingere che non esistessero, la musica di Faber suona impietosa. Mi sento coinvolto e per niente assolto e per mille motivi non so come uscirne, non essere vittima ne’ carnefice non mi aiuta per niente: il mio contributo alla causa non lo sto a raccontare, dico solo che il mio ruolo è nelle piccole cose. Mi sento inutile lo stesso, ancor di più se penso che vivrei di biciclette anche da adulto, nonostante tutto. Mi sento derubato di quella gioia che provavo ogni giorno, della speranza e della beatitudine che mi regalavano quei sogni di sport: ora sembra tutto senza valore, effimero. Ora che i diritti sono diventati privilegi, i privilegi sono diventati peccati. E lo sport è un privilegio perché devi avere tempo e soldi per farlo, o seguirlo, e allora sei colpevole. E allora vaffanculo.
Pensiamo in grande, concentriamoci sul presente e sul futuro, ognuno come crede. Lottiamo, speriamo, sopravviviamo, ma non facciamoci derubare dei nostri campi da calcio, delle nostre palestre, delle biciclette e delle scarpe da corsa, non facciamoci rubare il tempo e la voglia di migliorarci con la fatica fatta insieme, con le pacche sulle spalle, con i sogni da inseguire. La beata ignoranza della nostra infanzia è un lontano ricordo e di sicuro le vittorie dei campioni significano meno rispetto a venti anni fa, ma pur volendo dare alle cose un giusto valore, non facciamoci soffocare dalla merda di ogni giorno, dalle ingiustizie e dalle lamentele, dalle crisi di soldi e di valori: non facciamoci rubare anche lo sport, perché potrebbe non restarci più nulla.
Poche telecronache come quelle delle olimpiadi (ed in particolare delle vittorie della Belmondo) rendono l’idea di quello che ho provato in quegli anni e provo ancora ogni volta che rivedo quelle immagini. Lo Sport come valore universale, le Olimpiadi come sublimazione della civiltà. Gli antichi per svolgerle interrompevano le guerre.
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