Non sono molto alto e rientro nella media di quelli che, al rinnovo della carta d’identità, barano di qualche cm per poter veder scritto 180 cm sul documento. Però, tra i tanti sport in cui mi sono cimentato, c’è ovviamente la pallacanestro, il basketball per dirla all’anglosassone. E fra tutti, forse, è quello a cui mi sia dedicato per più tempo e con risultati (appena) soddisfacenti, che per l’epoca – parliamo del decennio ’90 – mi sembravano agonisticamente stratosferici. Mi piace il basket e lo scrivo perché qualche settimana fa mi sono imbattuto in uno spot di quelli che ti incollano alla sedia con annesso brivido lungo la schiena. Lebron James è tornato nella “sua” Cleveland e per l’occasione sono stati girati, a mezzo degli sponsor, una serie di spot pubblicitari davvero epici.
Ricordo quando fermavo il dito dallo zapping selvaggio serale per guardare le pubblicità della Gatorade o della Nike: Ly-O-Lay Ale Loya, la cantilena dei nativi indiani della famosa pubblicità sulla gazzella e il leone, era costantemente nel lettore cd portatile, mentre in casa palleggiavo con un pallone di gommapiuma per fare canestro imitando i miei beniamini d’oltreoceano. Sapevo tutto di tutti: nomi, caratteristiche fisiche, dati anagrafici, peculiarità, trasferimenti, numero di scelta nel draft annuale, punti deboli, soprannomi. In campagna conservo ancora un album completo delle figurine Upper deck NBA: per chi non se lo ricordasse erano una sorta di figurine di cartoncino spesso più grosse delle abituali, prive di colla (andavano inserite in un album apposito) e complete di tutte le caratteristiche del giocatore ritratto. Ma il ricordo migliore è legato ad una serie di partite e ad una in particolare.
Finals NBA, giugno 1998. A sfidarsi 2 compagini tra le più epiche, Chicago Bulls e Utah Jazz. La corazzata guidata dalla leggenda Michael Jordan, era all’inseguimento del suo secondo “three-peat” (in gergo indica la vittoria di 3 titoli consecutivi), contro la dinamica e assurda coppia Stockton-Malone: uno dei playmaker più forti di sempre con un’altezza di “soli” 185 cm ed una propensione al tiro da 3 punti devastante, a supporto della gigantesca ala grande Karl Malone, The mailman, ovvero “il postino”, 206 cm di altezza e un qualcosa come oltre 36 mila punti segnati in carriera. Il loro modo di giocare e trovarsi in campo darà vita al neologismo sportivo Stockton to Malone.
Vista la differita tv, guardavo le gare ad orari improbabili, porta della cameretta chiusa, canale fisso su TMC e volume della tv a 1. Traduzione: una violenza al sottoscritto che avrebbe voluto far ascoltare a tutto il condominio le finals ad un volume da arresto. Il letto di abete trattato cigolava e dovevo stare attento a muovermi per non svegliare i miei nella stanza adiacente. Alla telecronaca non due a caso, ma Flavio Tranquillo e Federico Buffa: due cronisti\giornalisti in grado di tirar fuori perle di sport ad ogni battito di ciglia, due tecnici, due innamorati dello sport, eccellenze assolute. Il tutto a volume 1. La violenza continuava, roba che a pensarci ora non so come abbia fatto a non svegliare il palazzo per dire a tutti i condòmini: “Sveglia, cazzo, ci sono le finals, cosa state lì a dormire, queste partite sono vita!”. Sopra il mio letto una foto di Einstein, con una didascalia che citava la sua celebre frase: Imagination is more important than knowledge.
E a destra un disegno di MJ, Michael Jordan.
Situazione di 3-2 per i Bulls, maturato dalle sfide precedenti. Nel particolare della gara, pareggio 83-83 a 43”9 sec dalla fine, secondo in cui Stockton si smarca ed esce dall’area per ricevere palla da Malone: un tiro da 3 a quel punto sarebbe una china troppo ripida da risalire. Stockton non sbaglia, tiro perfetto, solo la retina per lui (cit.). Phil Jackson chiama il time out obbligato. Quasi tutti considerano archiavata gara 6 e pronti per la decisiva gara 7. Si riprende e a 37”1 Jordan segna sotto canestro. “His Airness” decide che il punto della gara spetta solo a lui. Recupera palla a Karl Malone e nessun altro toccherà più la palla a parte lui stesso. Coast to coast del campo, palleggio cadenzato, penetrazione, finta spacca-caviglie su un innocente Byron Russell, elevazione, firma del quaderno di Storia NBA e dello sport. Qui è passato Michael Jordan, arrivederci e grazie. Bulls campioni.
Le parole di Tranquillo le ho stampate in mente meglio del Padre Nostro: «[…] ultimi 15”, -1 Chicago, il palleggio per Michael Jordan che ha spazio, tutti lo aspettano, può essere l’ultima azione della sua carriera NBA, arresto… tiro… Jordan, Jorda… MICHAEL… JEFFREY…. JORDAN!». 87-86, 45 punti totali per MJ in quella finale.
Che godere quegli anni, le partite e le telecronache che mi gasavano da morire, conservate gelosamente su VHS, registrate da un Telefunken a tubo catodico che dovevo accendere almeno una decina di minuti prima per poterlo scaldare per evitare un fastidioso effetto sdoppiato. Ci sono momenti in cui accedo a Youtube solo per rivedere e risentire quelle immagini così lontane dall’HD, ma così emozionanti come niente altro al mondo.
E come un mantra ripeto le parole di sua altezza Jordan in uno spot Nike dal titolo “Failure”: “Nella mia vita ho sbagliato più di novemila tiri, ho perso quasi trecento partite, ventisei volte i miei compagni mi hanno affidato il tiro decisivo e l’ho sbagliato. Ho fallito molte volte. Ed è per questo che alla fine ho vinto tutto”
Come si fa a non godere di certe perle di sport?
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