REWIND
Salford, Manchester. Un muro in cemento, liscio e regolare. Distanza due metri, non di più, non di meno. Colpisco la palla ritmicamente, quasi a tempo di musica, ma il solo rumore che sento è quello del pallone che rimbalza dal cemento al cuoio delle mie scarpe. E quello della pioggia, che da queste parti accompagna quasi tutte le mie giornate. Il kway è fradicio come lo sono i miei capelli. Rossi e bagnati. Destro-sinistro-destro-sinistro. La palla oscilla perfetta tra i miei piedi e il muro. Piove. Un colpo di tosse improvviso. Poi un altro. Poi un altro ancora. E cala il silenzio. Maledizione Paul.
Belo Horizonte, Minas Gerais. Se sei nato a Belo Horizonte e ti piace il calcio, o stai con l’Atletico Mineiro o stai col Cruzeiro. Con gli amici vado al quartiere Savassi a bere qualcosa. Poi allo stadio Raimundo Sampaio a vedere gli “Alvinegro”, la mia squadra del cuore, l’Atletico Mineiro. Il gallo che entra in campo, simbolo della squadra, e i miei campioni lì a pochi metri dai miei occhi. Anche io gioco a calcio e impazzisco letteralmente per Dario Josè Dos Santos, attaccante di peso, un centrattacco vero. Noi lo chiamiamo Dadà Maravilha, lo guardiamo segnare caterve di gol e vorremmo essere tutti come lui. Io però non ho il suo fisico possente; ho le gambe magre ma me la cavo parecchio bene tecnicamente. Non sarò come Dadà, ma mai dire mai.
Gateshead, Newcastle Upon Tyne. Sono uno stronzo. Uno stronzo un pò cicciottello. Però gioco a calcio come mai nessuno prima. Gioco per far divertire la squadra e il pubblico, gioco per divertimento. Ma la mia corsa un pò sporca e la mia falcata sbilenca, mi precludono la possibilità di essere ingaggiato a tre provini: Middlesbrough, Ipswich e Southampton mi scartano. Si fottano, tanto io esordirò in Premier con il Newcastle. Lo so non può essere diversamente. Io a 18 anni giocherò per quelle fottute, mie omonime, Magpies.
PLAY
Stoke-on-trent, Inghilterra. Capelli rossi e 19 anni all’anagrafe e il mio allenatore, Ferguson, mi dà un opportunità straordinaria: nonostante la tosse continua, ce l’ho fatta. Sarò titolare in Coppa di Lega contro il Port Vale, esordirò con la maglia del Manchester United. Nello spogliatoio prima della partita faccio l’aerosol e poi vado in campo. Andiamo sotto 1-0. Nessun problema. Silenzio e darci dentro. Finisce 1-2 per noi con una mia doppietta. Non sono molto grande, non sono uno da riviste, ho l’asma e i capelli rossi, ma so di possedere una tecnica sopraffina, allenata sotto la pioggia contro un muro di cemento, sto in silenzio come la maggior parte delle persone intelligenti, e ho le palle quadrate. E intanto, all’esordio in prima squadra, segno una doppietta.
Stadio Luigi Ferraris, Genova. C’è il clima delle grandi occasioni, una parte di città pronta ad esplodere di gioia per uno scudetto meritato e mai conquistato prima. Serve vincere, l’avversario è il Lecce. Sugli spalti la coreografia dei tifosi della Sampdoria è meravigliosa. Sento la loro impazienza per la vittoria. E io voglio fargli ballare la samba di Toninho. Mi tocco i baffi lunghi e neri e, dopo poco, inizia la partita. Lì in mezzo al campo servono occhi a 360°, un’intelligenza superiore alla media, la capacità di variare il ritmo a seconda delle situazioni. Ho voglia di ballare, di ballare con la mia gente: minuto numero 2, Vialli appoggia dietro una palla morbida, io arrivo in corsa e con un bolide segno l’uno a zero aprendo la danza. Ho avuto la capacità di accelerare il ritmo. Nella mia carriera, forse, il momento di gloria maggiore.
Stadio Olimpico, Roma. Il derby di Roma è un’esperienza mistica. Un po’ ovunque è così, ma a Roma tutto è amplificato. Non ho ancora segnato da quando sono arrivato in Serie A. Forse i dirigenti, l’allenatore e i tifosi si aspettano di più da me. Ma con me bisogna avere pazienza perché può succedere davvero di tutto. La Lazio è una bella squadra ma il calcio in Italia è diverso. Sento la differenza con Newcastle e Tottenham. Me ne frego e penso a divertirmi. Giannini, il Principe, porta in vantaggio la Roma. Noi fatichiamo e siamo sotto. Arriva alta una palla in area. E’ l’ottantanovesimo. La vedo chiara e nitida: salto e incorno sotto il sette. 1-1 e corsa sotto la curva della Lazio impazzita di gioia. Torno in lacrime verso il centrocampo, l’ho fatta grossa anche stavolta. Boskov si incazza e prende a pugni la panchina.
FORWARD
Manchester, Regno Unito. Nel silenzio di casa mia suona il telefono. Mi è sempre piaciuto il silenzio e da ciò deriva il soprannome che mi hanno affibiato i tifosi. Alzo la cornetta: è sir Alex Ferguson. Mi sembra strano. “Senti Paul, hai visto quanti infortuni a centrocampo quest’anno? Per la prossima partita io pensavo di rischierarti in campo. Lo so ti sei ritirato, ti vuoi riposare ma…diciamoci la verità: uno come te non si ritirerà mai”. Non c’è molto da dire e da fare. “Ok mister, ci vediamo tra poco all’Old Trafford. Prendo il 22 che l’8 è già occupato. A dopo”. Preparo un piccolo beauty-case con dentro le fialette per l’aerosol, mi guardo allo specchio in silenzio, mi scompiglio i miei capelli rossi e penso “avercene giocatori come me”.
Settimana della Moda, Milano. Sono seduto in prima fila, di fianco alla passerella dove tra poco sfilerà mia figlia. Sono agitato perchè mi sento fuori luogo. In mezzo al campo sono sempre stato tranquillo, quasi compassato, perchè sapevo quello che dovevo fare. Bastava azionare i contatti occhi-cervello-gambe e tutto veniva naturale. Qui, sotto le luci dei riflettori mi iniziano a sudare i baffi ormai bianchi. Lea Cerezo è bellissima nel suo vestito. Sfila con sicurezza e testa alta. Sfila con la stessa tranquillità con cui io facevo un’apertura cambiando gioco per 40 o 50 metri. Non è stato facile, ma adesso è bellissima.
In un pub di Londra, Londra. Il bancone del bar è lucido, sfavillante. Sono io a non esserlo. Non lo sono forse davvero mai stato nella mia vita. Bevo una tequila, lentamente, e penso che la vita è un pendolo che oscilla tra le occasioni perse e quelle sfruttate, tra un treno preso e uno perso. Quel cazzone di McAllister ha appena sbagliato il rigore concesso da Pairetto. Cioè non l’ha sbagliato è Seaman ad averlo parato benissimo, con un gomito. Il prato di Wembley è liscio come la mia tequila. Guardo dentro il bicchiere e i ricordi affiorano nitidi: la palla è facile da addomesticare e il passaggio arriva. Salto un avversario in pallonetto e al volo fulmino Andy Goram. Tutto facile, troppo facile. Rido, mezzo ubriaco, pensando a come ha fatto McAllister a sbagliare un rigore così determinante. Mi sdraio a lato della porta, appena profanata, ed esulto. Come vorrei essere lì adesso con i compagni a far finta di bere tequila.
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