Si chiama Billie Jean come la protagonista della mitica hit di Micheal Jackson. È nata nel 1943 a Long Beach, California. Di cognome faceva Mofitt, ma dopo il matrimonio diventa King, che in inglese significa re. Gli scherzi del destino.
Billie Jean King è la regina del tennis americano (e mondiale) fra la metà degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Ottanta. Tra il 1966 e il 1974, è per cinque volte la numero 1 del mondo con 39 titoli del Grande Slam all’attivo. Nel 1972 la rivista Sports Illustrated la elegge Sportivo dell’Anno, prima donna nella storia del riconoscimento. Nel 1973 Billie vince the Battle of the Sexes ed entra nella leggenda.
Il guanto l’aveva lanciato Bobby Riggs. «Il tennis femminile è inferiore» aveva detto l’ex campione ormai 55enne, sfidando le migliori giocatrici del momento a dimostrare il contrario. È la battaglia dei sessi e in palio ci sono 100mila dollari. Se nel primo match Riggs ha la meglio contro Margaret Court (liquidata con un secco 6-2; 6-1), il campione guascone è destinato ad incartarsi contro Mrs King. 6-4, 6-3, 6-3, così il tabellone a fine partita. Tirando le fila, abbiamo una femmina che batte un maschio davanti a uno stadio pieno zeppo e 90 milioni di persone davanti alla tv. Naturale che, oltre al montepremi, Billie Jean porti a casa un titolo che non ha prezzo, l’autorevolezza. Le sportive americane, e le donne in genere, hanno un nuovo idolo.
A coronamento delle battaglie femministe intraprese con altre colleghe – su tutte l’equal pay, ovvero un’identica remunerazione per maschi e femmine a parità di torneo vinto – King crea la Women’s Tennis Association insieme ad altre colleghe. Nel 1974, esattamente 40 anni fa, fonda la Women’s Sports Foundation, che da allora è in attività. «La nostra missione – si legge nel video promo – è far avanzare le vite delle ragazze e delle donne attraverso lo sport e l’attività fisica». La fondazione, di cui King è presidente, promuove borse di studio for girls only, programmi di ricerca, attività ludiche e educative nelle scuole di tutti gli Stati Uniti. Di recente ha chiesto alla FIFA di garantire campi di erba naturale alle giocatrici del Mondiale di calcio 2015 al pari dei colleghi maschi che si sono sfidati la scorsa estate in Brasile.
La storia di King è talmente speciale da sembrare un film. Ognuno ci può leggere quello che preferisce. La scalata sociale della figlia di una casalinga e di un pompiere che diventa milionaria. Oppure l’odissea di una donna che, dopo un matrimonio difficile segnato da una serie di aborti, si scopre omosessuale. O forse, prima di tutto, la storia di una grande, grandissima sportiva. «Qualunque donna che voglia raggiungere un obiettivo dev’essere aggressiva e dura» ha detto nel 1980, motivando la sua fama di competitiva maniacale. C’è da capirla. King è cresciuta alla metà degli anni Cinquanta. Prima di diventare la più brava tennista su piazza, ha dovuto prendere lezioni gratuite sui campi pubblici della California. Si è vista rifiutare una serie di borse di studio sportive per il solo fatto di non essere un maschio. Ha verificato che essere brava non basta, bisogna essere la migliore, senza mai stancarsi di lottare (anche per una paga adeguata). E, più di recente, ha scoperto che amare un’altra donna può essere un problema.
A 72 anni appena compiuti, Billie Jean King resta una pioniera: «Fare sport – ha detto – ti insegna la forza di carattere, ti insegna a giocare secondo le regole, ti insegna come ci si sente a vincere e a perdere. Ti insegna la vita».
Lorenza Delucchi
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