È difficile stabilire se sia stato il più grande di tutti i tempi. Anche perché, a riguardo, non esistono criteri di assoluta oggettività. Per molti addetti ai lavori, però, Lev Jašin è ancora oggi il portiere più forte di sempre. Un giudizio indubbiamente influenzato dal fatto di essere l’unico ad aver vinto il Pallone d’Oro. Impresa diventata, col passar del tempo, sempre più difficile da replicare. Soprattutto quando, nel 2006, anno dei Mondiali di Germania, sembrava che questo riconoscimento dovesse andare a un altro numero uno: Gianluigi Buffon. Se anche in quell’occasione il Pallone d’Oro non è stato assegnato a un portiere (per altro determinante per la vittoria dell’Italia ai Campionati del Mondo) risulta praticamente impossibile immaginare un’altra situazione in cui un estremo difensore possa eguagliare l’impresa di Jašin.
Di sicuro la storia del “Ragno nero” smentisce tutta una serie di luoghi comuni relativi al ruolo del portiere. A cominciare da quello che vorrebbe tutti i guardiani dei pali un po’ pazzi ed estroversi. Lui, se non il più forte di sempre, sicuramente il più grande dei decenni ’50 e ’60, è stato un uomo riservato, con un carattere molto lontano da quella “positiva follia” che molti vorrebbero condizione necessaria per essere dei numeri uno. Un altro luogo comune sfatato da Lev Jašin e dal suo modo di interpretare questo ruolo è quello relativo alla capacità dei portieri di dimenticarsi gli errori commessi. Il suo punto di vista è sempre stato diametralmente opposto a quello di chi ha sostenuto tale tesi. Per il “Ragno nero” gli errori non vanno mai dimenticati. Anzi, proprio per evitare di replicarli, devono costituire un elemento da analizzare in continuazione. Prerogativa di chi ha la saldezza mentale per non farsi condizionare negativamente dalla memoria di uno sbaglio. Ma il luogo comune maggiormente smentito da Jašin è quello relativo al fatto che “portieri si nasce, non ci si diventa”. Tale confutazione non ci arriva direttamente dalle sue parole ma dalla sua biografia. La sua storia, infatti, ci racconta come lui lo sia diventato per caso. Attratto dal calcio come tutti i suoi coetanei, nelle battaglie sportive che si combattevano nei cortili moscoviti, giocava come centravanti; relegato al ruolo di portiere per un ordine impartito da un allenatore improvvisato, non osò obiettare; uno sguardo ben più esperto intravide in lui un grande portiere di hockey, carriera che intraprese di buon grado; quando, entrato in pianta stabile nella polisportiva Dinamo di Mosca, divenne primo portiere della squadra di hockey con la prospettiva di partecipate a competizioni internazionali con la rappresentativa sovietica e terzo portiere della squadra di calcio con prospettive incerte. Messo di fronte alla necessità di una scelta definitiva, decise di optare per la soluzione più azzardata.
Il portiere si presta alle narrazioni eroiche per il semplice fatto di essere il ruolo più individuale del calcio. Ma Jašin, come nella migliore tradizione letteraria della sua terra, è un antieroe. Non è un antieroe figlio della mancanza di altruismo, coraggio, forza d’animo e idealismo. Per intenderci, non è la trasposizione calcistica del Čičikov de Le anime morte di Gogol’ o dell’Oblomov di Gončarov. Il suo antieroismo non è legato letteratura russa ma al mondo sovietico in quanto negazione dell’individualismo. Jašin, figlio del suo tempo, come da adolescente aveva svolto in fabbrica, al massimo delle proprie possibilità, le mansioni di tornitore, così si comportava nello sport, avvertendo un ulteriore senso di responsabilità nel mantenere alto, non tanto il proprio prestigio di personaggio pubblico, l’onore della propria società e l’onore della propria patria. Per quanto giocasse nel ruolo più individuale del calcio, il suo senso di appartenenza a qualcosa di infinitamente più grande di lui non venne mai meno. Condizione che, molto probabilmente, ha contribuito a farlo diventare, oltre che, a detta di molti, il portiere più forte di ogni tempo, una personalità irripetibile nel mondo del calcio.
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