Quanto sono fragili i ricordi. Si commuovono facilmente e a causa della loro emozione, di conseguenza, ci facciamo del male anche noi. Ed ogni 13 gennaio, qualcosa si muove dentro, facendone affiorare parecchi. Forse perché ho sempre avuto la tendenza a festeggiare, più che a piangere, perché non ho mai voluto avere tempo per essere triste. Ho sempre cercato di rimboccarmi le maniche, perché non ho mai avuto intenzione di imparare a soffrire. Sbagliando, magari. E quindi, la data di riferimento, è il 13 gennaio. Perché c’è Marco da festeggiare. Marco che è ancora qui. Marco, che forse è la volta buona per arrivare ad una verità.
E in questo giorno particolare, voglio raccontare una storia. Una di quelle che piacciono a me, che passano forse in sordina rispetto a tante altre. Una di quelle talmente belle che andrebbero gridate al mondo, oppure, molto semplicemente, sussurrate, aspettando che qualche orecchio sensibile possa catturarle e portarle in giro per il mondo. Una storia di ricordi fragili e cuore forte. I ricordi, sono per tutti gli stessi.
Il cuore è quello di Alberto Brignoli. Gioca a pallone, Alberto, nella Ternana, che attualmente è in Serie B. Il suo ruolo è quello del portiere. Difende la porta, la squadra. Ed è un punto di riferimento, perché è sempre il migliore in campo. E’ nato in un piccolo paese nel bergamasco, Trescole Balneario, nell’agosto del 1991. Ha cominciato con la bici, Alberto. Correva in una squadra diretta da un prete, al suo paese. Ed era veramente una promessa importante. Perché la passione del ciclismo, lo aveva colpito al cuore. Lì, in quel posto magico dove vengono conservati gli eterni amori.
I primi e gli ultimi. Tutti intensi. E ha cominciato a pedalare uscendo dal coro. Sì, perché i suoi amici, avevano tutti il mito del pallone. Lui ne aveva un altro. Si chiamava Marco e veniva dalla Romagna. Professione? Ciclista, naturalmente. Aveva in testa una bandana e un orecchino ad impreziosirgli il lobo. Tanto talento in quelle gambe. Si chiamava Pantani, conosciuto come Pirata. E’ arrivata subito questa affezione verso Marco. Le gare le guardava già prima, in tv, insieme al papà. Poi il Panta ha messo la ciliegina sulla torta. Con lui che scattava in salita, l’occhio e l’anima non potevano far altro che incollarsi a quello schermo: gridare Forza Marco! era quasi automatico.
Anche Alberto, a modo suo, era un po’ un pirata. Anche lui, in allenamento e in gara, con in testa la bandana gialla. Perché al mito si vuole somigliare il più possibile, lo si vuole sentire vicino. Vinceva, in nome suo. E’ cresciuto insieme a lui, sperando, ogni giorno, di poter vincere come lui. In salita, in mezzo alla folla che lo chiamava. Quanto sono belli i sogni dei bambini, così puri e innocenti. Così veri, senza filtri, spontanei.
Poi arrivò il giorno. Madonna di Campiglio, 5 giugno 1999.
Pantani sta per vincere il Giro d’Italia, ma viene fermato per un sospetto controllo antidoping. Escluso dalla corsa rosa, escluso dal suo mondo. L’Italia si ferma, Alberto si ferma. E’ una botta troppo dura. Senza Marco, manca la stella polare, così come l’ha definito lui stesso. E quando una bussola perde il Nord, il viaggio non può far altro che interrompersi. La bici parcheggiata in garage, lo sdegno e l’amarezza per aver visto un uomo che al ciclismo ha dato così tanto, additato come un delinquente. E’ una ferita ancora aperta e la voce si spezza, immancabilmente. Sempre colpa di quei ricordi fragili. Perché in automatico, la memoria richiamava all’appello le imprese di Marco, i suoi successi, le sue vittorie. Mentre la realtà proponeva un’altra cosa. Un uomo distrutto dal mondo che lo aveva cresciuto. Strozzato da mani che prima erano carezze. Pugnalato da penne che prima di lui scrivevano solo bene. E quindi basta così.
I copertoni gialli e gli occhiali come quelli di Marco messi in ripostiglio. Perché non sarebbe più stata la stessa cosa. Perché senza Marco, niente era più la stessa cosa. Ciò che fa male a me, ma credo anche ad Alberto, è il fatto che solo dopo, la maggior parte si sia accorta di quanto male è stato fatto a quel ragazzo che nella bici trovava lo sfogo di una vita troppo amara. Dopo, quando ormai il danno era irreparabile. Quando Marco era volato via.
E quindi al posto delle scarpe che si agganciavano ai pedali, Alberto ha optato per quelle con i tacchetti che graffiano l’erba degli stadi. Portierone, come abbiamo già detto. Istinto, talento, cuore. Lo spirito di Marco in mezzo ai campi di calcio. Perché anche se lo sport è diverso, la strada da seguire è sempre la stessa. Con Marco affianco, sempre e comunque. Lo onora bene, lo scalatore di Cesenatico. Quello scalatore atipico, venuto dal mare.
Dal 2009 al 2011 nella rosa del Montichiari, passando poi per il Lumezzane e sbarcando alla Ternana, dove da subito, si è fatto voler bene dai tifosi delle “Fere”.
Riporto per intero una frase di Alberto, detta alla Gazzetta dello sport, lo scorso febbraio. E’ di una bellezza sconvolgente:
la mia stella polare era Marco e non l’ho cambiata quando l’hanno tirato giù dal cielo. Perché non si poteva cambiare. Lui era unico
Credo che modo migliore di questo non ci fosse per parlare di Marco. Per ricordarci quanto è stato importante nella vita di ognuno di noi. Nella mia è stato fondamentale. Senza di lui, il ciclismo non lo avrei mai conosciuto. Siamo nati nello stesso anno, io fisicamente, lui sportivamente. Lo porto con me, nelle mie giornate. Così come Alberto nelle sue parate. Perché l’ombra di quella bandana, dopo averla scontrata, non puoi più dimenticarla.
Un’ultima cosa, ma non meno importante. Lasciate che le storie come quella di Alberto, vi portino su, in alto, fino a dove i sogni, la realtà, la toccano da qualche parte. Perché sono troppo belle, per essere lasciate cadere per terra. Raccoglietele e conservatele, vi saranno d’aiuto. Mi commuovo, a 20 anni, a pensare quanto Marco abbia legato tantissime persone e sia riuscito, con la sua unicità, a far incontrare i destini di tutti noi.
Grazie Marco, Buon Compleanno.
Credit Image @Alessio Atzeni
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