Domenica 27 settembre 2015 la Catalogna ha votato per rinnovare il Parlamento locale. Nei piani del governatore uscente Artur Mas la votazione doveva avere un carattere plebiscitario sulla questione indipendenza sì-indipendenza no. Il risultato delle urne conferisce alla coalizione indipendentista Junts pel sì legittimità governativa in quanto è il partito più votato. Tuttavia, non ottiene maggioranza assoluta dei seggi e sarà costretto a una difficile alleanza con un altro partito indipendentista, la CUP (partito di sinistra, operaio e molto attivo sul piano sociale), che vede Mas e tutto quello che rappresenta (la borghesia catalana conservatrice) come fumo negli occhi. Impossibile prevedere come andrà a finire. Di certo la situazione non è semplice e il cammino che dovrebbe portare al distacco da Madrid tutt’altro che in discesa, a dispetto delle speranze di Mas.
Ma dove nasce l’indipendentismo catalano?
L’insofferenza di Barcellona nei confronti del governo centrale di Madrid è da far risalire per lo meno al 1714 quando Filippo V, primo sovrano spagnolo della dinastia dei Borbone, mise fine alla guerra di successione spagnola radendo al suolo Barcellona. Per capire, però, è necessario fare un ulteriore passo indietro. Nel 1699, infatti, muore senza eredi l’ultimo sovrano degli Asburgo di Spagna, Carlo II. La Spagna degli Asburgo era, in realtà, qualcosa di molto simile a un Regno Unito di Castiglia e Aragona che mantenevano su molti temi una totale e completa autonomia. I piani dei Borbone, però, erano di smantellare questa struttura e creare un potere centrale molto forte sulla scorta di quello di Parigi. I territori della Corona d’Aragona (che comprendevano l’attuale Catalogna), temendo per la loro autonomia, si ribellarono e appoggiarono l’altro pretendente al trono di Spagna, Carlo d’Austria, Asburgo di lingua germanica. Ben presto gli ‘striaci e i loro alleati (tra cui la Gran Bretagna e i nostri Savoia) mollarono l’osso lasciando la Catalogna al suo destino. Il dato non è di poco conto, in quanto i Baschi, che già allora dimostravano di avere un pragmatismo eccezionale, capendo come girava il vento fecero di necessità virtù e negoziarono con i Borbone: noi ti appoggiamo, caro Felipe, ma tu nella nuova Spagna ci darai completa autonomia fiscale. Detto, fatto: il nuovo sovrano, che tanto pirla non era, strappa l’appoggio dei guerrieri Baschi, fa rotta su Barcellona e mette a ferro e fuoco la città ponendo fine alla guerra di successione e garantendo a lui e ai suoi discendenti un sicuro regno su cui esercitare il proprio potere.
Ma veniamo a oggi, anno domini 2015, in cui la comunità autonoma del País Basco continua a godere dell’autonomia fiscale concessa nel 1714, senza per questo aver perso neanche un briciolo del proprio sentimento anti-spagnolo, mentre la Catalogna è impantanata nella questione indipendentista nella quale, in una Regione che parla la propria lingua e ha una propria polizia differente dal resto del Paese (i Mossos d’Esquadra), la questione fiscale è centrale.
Questa lunga premessa per capire quanto radicata nel tempo e nella coscienza civile sia la questione catalana da queste parti. Questione che travalica, sempre e regolarmente, i confini della politica per andare a parare in terreni più umani e meno alti, laddove è concesso dare sfogo a ogni più bassa pulsazione. Sto parlando, ovviamente, degli spalti di uno stadio di calcio. La maestosa xiulada all’inno spagnolo durante la finale di Copa del Rey tra FC Barcellona e Athletic Bilbao (squadra Basca che, per statuto, può tesserare solo giocatori di origine Basca), come conseguenza ha avuto solo un timido rimbrotto da parte del Primo Ministro spagnolo Mariano Rajoy. Il Re Filippo VI, presente in tribuna, quasi non si curò della cosa e sorvolò con borbonica indifferenza. Ma c’è stato un tempo in cui fischiare non veniva considerato un gesto da ragazzi in vena di scherzi.
Riavvolgiamo ancora una volta il nastro della storia e arriviamo al 14 giugno del 1925. In Spagna c’è la dittatura di Primo de Rivera (una specie di fascista una tacca meno esaltato di Franco) e sul trono Alfonso XIII, bisnonno di Filippo VI. Il FC Barcelona organizza per quel giorno una partita contro il CE Jupiter sul campo di casa, il mitico Camp de les Corts, stadio ufficiale dei blaugrana dal 1922 al 1957, quando venne inaugurato il Camp Nou. La partita doveva essere in onore all’Orfeo Català, istituzione culturale tutt’ora esistente dedita alla musica e con una forte identità catalana e catalanista. Da buon dittatore, Primo de Rivera non concede l’autorizzazione a giocare la partita, salvo poi fare marcia indietro vista l’insurrezione popolare che si stava minacciando per le strade della città. Il caso volle che, in quei giorni, fosse presente a Barcellona, su una nave britannica ormeggiata in porto, l’orchestra della British Royal Marine che fu invitata dai dirigenti del Barcellona a suonare l’inno d’apertura del match. Come senso di ospitalità nei confronti dei musicisti inglesi, fu chiesto agli orchestrali di precedere l’esecuzione della Marcha Real con quella di God Save the King. Il risultato fu sconvolgente: l’inno spagnolo, simbolo del potere monarchico iberico, venne rumorosamente fischiato dai tifosi catalani, mentre quello inglese, simbolo del potere monarchico britannico, venne fragorosamente applaudito. Questo mandò su tutte le furie le autorità governative spagnole che presero contromisure di eccezionale severità: il Camp de les Corts venne chiuso inizialmente per sei mesi, poi ridotti a tre, e il presidente e fondatore del FC Barcelona, lo svizzero Hans “Joan” Gamper, venne costretto alle dimissioni. Ma non è tutto: il governo di Madrid sospese anche tutte le attività del club per sei mesi e, quando rientrò al Camp de les Corts il giorno di Natale del 1925, lo fece con un nuovo presidente in carica, Arcadi Balaguer, che aveva importanti amicizia politiche. Gamper, oltre a dimettersi, venne espulso dalla Spagna e fece ritorno in Svizzera. Per il fondatore di una delle più leggendarie squadre di calcio iniziò un lungo calvario: precipitato nel tunnel della depressione, gli venne concesso di tornare a Barcellona, ma con il divieto assoluto di mantenere contatti con il club da lui stesso fondato. Morì suicida, nel suo domicilio barcellonese, il 30 giugno del 1930.
Qualunque cosa succederà a partire dalle prossime settimane, qualunque decisione prenderà il nuovo Parlamento catalano, la partita che si gioca fuori dalle stanze dei bottoni è tutt’altro che chiusa. Pochi giorni fa, infatti, il presidente della Liga Española de Fútbol ha dichiarato che in caso di indipendenza della Catalogna, il FC Barcelona (e l’Espanyol?) non avrebbero più diritto a giocare il massimo campionato spagnolo e, quindi, addio clásico. Forse si ripristinerà l’antico campionato di Catalogna che i blaugrana dominavano fino al 1927, anno in cui si iniziò a giocare la Liga. Resta ancora da vedere cosa deciderà Platini in merito all’iscrizione UEFA dei club catalani e alla loro partecipazione alle competizioni europee, prima fra tutte la Champions. Non sono un indovino, ma credo che ne vedremo delle belle (e, secondo me, il clásico si continuerà a giocare).
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