Cosa conta di più: la squadra, il giocatore o lo sponsor? E quanto uno sponsor si identifica con la squadra? Un piccolo viaggio nel calcio italiano (e non) per scoprirlo.
Leggi la parte I. L’Atalanta di Stromberg e della Tamoil – L’eco di due rivoluzioni
Gli anni Settanta furono anni di fermento.
Già da subito il bel viso dei calciatori non passò inosservato ai lunghi tentacoli della reclame. Bettega, Boninsegna, Facchetti, Mazzola, Rocco: furono loro, volti noti della serie A, a prestare per primi nome e fama ai prodotti, grazie al riconoscimento del diritto d’immagine a scopo pubblicitario.
Il muro era stato scalfito. Ma la prima breccia arrivò quattro anni dopo, nel 1978, con la creazione di una struttura ad hoc per studiare e regolamentare Totocalcio, diritti Tv e sponsorizzazioni: la Promocalcio. Fu lei ad aprire la strada ai primi marchi commerciali sulle maglie da gioco, non superiori a 12 cm2 (poi portati a 16) ed esclusivamente riservati ai fornitori tecnici. Fu così che, tra le strisce bianche e nere della Vecchia Signora, finirono i due giovani seduti schiena contro schiena del logo della Kappa.
Tanto bastò a mettere in moto gli ingranaggi cerebrali dei molti che individuarono grosse risorse da questo spiraglio. Così ci fu chi, come il patron dell’Udinese Sanson, sempre nel 1978 approfittò di un non-detto del regolamento delle divise da gioco, che da norma faceva riferimento esplicito alle maglie, per inserire il nome della sua omonima azienda di gelati sui pantaloncini della squadra (mossa che costò un’ammenda e l’obbligo di rimozione, ma che diede notevole visibilità). E chi, come il presidente del Perugia D’Attoma, nella stagione 1979/80, per ottenere i 700 milioni di lire necessari a schierare nella propria rosa l’attaccante Paolo Rossi, aggirò il divieto federale di una sponsorizzazione commerciale fondando un maglificio col nome del pastificio (Ponte) che finanziava la squadra, potendone a quel punto sfoggiarne il marchio sulle maglie da gioco come semplice fornitore tecnico.
Fu de facto la prima maglia sponsorizzata del calcio italiano. Ovviamente la Federazione multò e proibì l’iniziativa – mossa questa che portò il patron perugino a rilanciare e apporre il marchio Ponte su tutti gli indumenti della squadra e perfino su reti e sull’erba dello stadio di casa – ma alla fine D’Attoma la spuntò, ottenendo di poter utilizzare le maglie “incriminate” negli ultimi scampoli di campionato.
Udinese e Perugia non furono sole e “alla lotta” si unirono anche Cagliari, Genoa e Torino che, nella stessa stagione, iniziarono a marchiare le tute dei panchinari e dei raccattapalle rispettivamente con le effigi di Alisarda, Seiko e Cora.
Dopo un’annata del genere, la Federazione non resse più e nella stagione 1981/82 aprì le porte agli sponsor extrasettore, concedendo 100 cm2 (poi 144) sulla parte anteriore delle maglie. I pionieri dell’apertura pubblicitaria furono 28: 16 squadre di serie A, 12 di B. E se si fecero avanti marchi che divennero storici nel calcio, tanto da creare un legame quasi identitario con la società, come la Barilla con la Roma o Ariston con la Juventus, non mancarono accoppiamenti bizzarri.
Per chi ha dimestichezza col calcio dilettantistico, abituato a sfoggiare il logo del panificio di quartiere, verrà un po’ da sorridere, ad altri susciterà incredulità, ma in quella prima stagione brandizzata, i jeans “da battaglia” della Pooh Jeans occuparono il petto dei giocatori del Milan (jeans, ma della Pop 84, toccarono anche all’Ascoli), e un’azienda vinicola, la Barbero, si stagliò sullo sfondo granata della maglia del Toro. Per non parlare poi del Catanzaro, che finì con un’azienda di pentole (la Cook O’Matic) e il Cesena con i macchinari agricoli dei Fratelli Dieci. Bologna e Napoli trovarono invece supporto nelle cucine, rispettivamente Febal e Snaidero.
Da quel giorno la macchina è andata perfezionandosi, di pari passo con una maggiore spettacolarizzazione del calcio e un’assuefazione da parte del pubblico, che ormai reagisce alla pubblicità con la naturalezza di chi ne è sempre stato sottoposto. Ed è così che, dopo più di quindici anni dall’accordo di sponsorizzazione, il sottoscritto ha preso pienamente coscienza che la serie A è TIM, come pure TIM è la Cup, che sarebbe la fu Coppa Italia. Discorso analogo per la serie cadetta, che negli ultimi anni è passata da Bwin a Eurobet. E dire che Naomi Klein, con No Logo, ci aveva messo in guardia già parecchi anni fa.
Ma fosse solo questo! Tra i fondali dai mille loghi trasversali per le interviste a “botta calda”, la possibilità di un terzo sponsor applicabile sul retro delle maglie e il pallone griffato, l’identificazione tra squadra e sponsor è ormai cosa lontana e l’unica cosa che può ormai far notizia è l’assenza del brand, come nella stagione 2014/15 dove 7 squadre su 20 (Cesena, Fiorentina, Genoa, Lazio, Palermo, Roma e Sampdoria) sfoggiavano maglie orfane di main sponsor. Si disse che l’asticella per l’incasso fosse troppo alta per l’appeal in decadenza del nostro torneo. Storia diversa ovviamente per i grandi club stellari e internazionali come il Barcellona che, dopo 113 anni, dal luglio 2013, ha pensato che poteva convenire “sporcare” la maglia blaugrana con uno sponsor commerciale, Qatar Airways, dopo l’esperienza no profit di Unicef e Qatar foundation.
Siamo nel calcio che fattura, dove la Champions League, più che un torneo, è un brand.
Non ci resta che l’HD e il fascino patinato e asettico dello show business, comodi comodi ad addentare il nostro bel panino coi gamberetti?
Nel 2005 i tifosi delusi del Manchester United hanno risposto a questo interrogativo fondando un club sostenibile e gestito democraticamente, l’FC United of Manchester: l’altra faccia di Manchester che non si riconosceva nel nuovo corso votato al business del neo presidente Glazer, nel modello pay tv e in uno stadio riservato ai ricchi. Sostituirono la sottoscrizione libera alla sponsorizzazione e la possibilità di un calcio no profit a contatto con le persone.
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