Dimenticate il libro Aria Sottile di Jon Krakauer da cui è stato tratto Everest, il film uscito recentemente nelle sale, incentrato su una tragedia avvenuta nel 1996. Dimenticate il 1953, anno in cui per la prima volta viene violato il tetto il mondo da Sir Edmund Hillary e Tenzing Norgay. Dimenticate anche il mito di George Mallory, lo sfortunato alpinista che – forse – nel 1924 fu il primo a raggiungerne la vetta insieme ad Andrew Irvine.
Nel bene e nel male queste storie di epica alpinistica sono entrate nell’immaginario di ogni appassionato di montagna: spedizioni organizzate nei minimi particolari e capeggiate da fortissimi scalatori – anche la tragedia del 1996 che è stata principalmente una concatenazione di scelte sbagliate e fattori legati all’imprevedibilità dell’alta montagna vedeva la partecipazione di alpinisti del calibro di Rob Hall, Scott Fisher e Anatoli Boukreev.
Ecco, diciamo che il protagonista di questo post non era un alpinista, anzi si può dire che non avesse mai scalato una montagna o quasi e che la sua fu una impresa solitaria senza l’ausilio di quei mezzi che avevano contraddistinto le spedizioni che dal 1921 avevano puntato all’ascesa del cosiddetto Terzo Polo. Ciononostante decise che sarebbe diventato il primo essere umano a mettere piede sulla cima dell’Everest. Il suo nome era Maurice Wilson.
Nato nel 1898 nello Yorkshire, come la quasi totalità dei giovani della sua generazione, Wilson visse l’inferno della prima guerra mondiale, meritandosi la Croce al Valor Militare nella terribile battaglia d’Ypres. Ferito da una mitragliatrice a un braccio, di cui perse il quasi totale utilizzo in maniera permanente, venne congedato e rispedito in patria. Con la fine della guerra, appartenendo a quella “generazione perduta“, fatta di uomini mutilati nel fisico e nell’anima da quella fabbrica di morte che fu la Grande Guerra, Wilson iniziò a dare segni di disagio e irrequietezza, trovando enormi difficoltà a reinserirsi nella vita di tutti i giorni. In quegli anni le ideologie populiste di estrema destra e sinistra canalizzavano la frustrazione e l’incertezza di quella moltitudine di reduci, ma nel caso di Wilson il tentativo di catarsi si manifestò in una dottrina di preghiera e digiuno che, a sua detta, lo salvò da una grave forma di tubercolosi contratta nell’immediato dopoguerra.
Convinto che il digiuno e la fede gli avrebbero permesso di realizzare anche la più improbabile delle imprese, nel 1932 Wilson maturò l’idea di poter organizzare una spedizione solitaria per la conquista dell’Everest, riuscendo nell’impresa che aveva visto sconfitte negli anni precedenti spedizioni ben equipaggiate e organizzate militarmente, come quella in cui era scomparso nel 1924 il fortissimo scalatore britannico George Mallory. Il piano di Wilson era quello di arrivare in aereo direttamente alle pendici dell’Everest sul ghiacciaio del Rongbuk per proseguire a piedi verso la vetta. Tra l’uomo e il suo sogno si frapponevano solo due problemi: non aveva mai pilotato un aereo e non aveva nessuna nozione di alpinismo. Nel giro di pochi mesi riuscì a conseguire, non senza difficoltà, il brevetto di volo e acquistò un vecchio biplano a cabina scoperta che ribattezzò “Ever Wrest” – un gioco di parole che si potrebbe tradurre come “sforzati sempre” – il massimo che poteva permettersi, data l’esiguità delle sue finanze. Si recò dunque nel Lake District dove si dedicò alla arrampicata su roccia per sole cinque settimane, imparando poco o niente. Nonostante tutto si sentì pronto per la grande avventura.
Nel frattempo il ministero dell’Aeronautica venne a conoscenza del suo proposito, notificandogli ufficialmente il divieto assoluto a sorvolare lo spazio aereo nepalese. Incurante di questo avvertimento proseguì nella preparazione del viaggio e il 21 maggio 1933 decollò dall’aeroporto di Enfield, vicino Londra, poco dopo aver ricevuto un telegramma del ministero che gli proibiva espressamente di intraprendere la sua folle impresa. I giornali incominciarono a interessarsi alla vicenda, dedicandole moltissimi articoli, quasi tutti contrari al piano di conquista di Wilson. C’è da considerare che negli anni ’20 e ’30 le storie d’alpinismo avevano grande risalto sui media in un clima che nei decenni successivi avrebbe caratterizzato la corsa allo spazio.
Dopo una settimana di voli e scali in varie città europee, Wilson sbarcò al Cairo, rischiando grosso nella traversata verso la Tunisia a causa di una tempesta. Pochi giorni dopo arrivò a Baghdad, conquistando le prime pagine di molti giornali britannici. Ma il governo di Sua maestà ancora una volta si mise in mezzo proibendogli di volare sul territorio persiano e costringendolo a virare verso sud lungo la penisola arabica, eventualità che Wilson aveva scartato sin dalla progettazione del viaggio tanto che non si era nemmeno procurato precise mappe del luogo. Nonostante le circostanze avverse riuscì ad atterrare in Bahrain poco prima di esaurire completamente la benzina. Qui venne bloccato da funzionari britannici che gli comunicarono la totale chiusura dello spazio aereo al traffico aereo civile da parte della Royal Air Force. Simulando un volo di ritorno verso l’Iraq, non appena decollato, virò il suo aereo verso est puntando a quella che all’epoca era l’India Britannica, ma la distanza da colmare superava le capacità di carburante del suo Ever Wrest: il risultato fu un atterraggio di emergenza a Gwadar nell’odierno Pakistan, in cui Wilson rischiò grosso ma fu abilissimo nel non perdere il controllo del velivolo. Qui le autorità inglesi ebbero la meglio e riuscirono a confiscargli l’aereo. Nonostante tutti gli sforzi avversi del governo britannico era riuscito a percorrere 8.000 Km in 17 giorni con un aereo obsoleto e non certo progettato per coprire grandi distanze, con pochissime nozioni di volo e con mezzi risicati.
Sarebbe forse bastato questo a demoralizzare Wilson? Certo che no. Con il monsone in pieno svolgimento, percorse circa 300 km attraverso il Darjeeling dove chiese di poter attraversare il Sikkim e il Tibet a piedi. Anche in questo caso le autorità inglesi gli negarono il visto. E con i soldi derivanti dalla vendita del suo aereo Wilson trascorse l’autunno e l’inverno a Darjeeling allenandosi per la scalata, finché verso la fine di marzo del 1934, travestito da lama tibetano e in compagnia di tre portatori di una precedente spedizione inglese, partì clandestinamente alla volta del Tibet, viaggiando solo di notte per non essere scoperto. In venticinque giorni di cammino l’insolita compagnia raggiunse il monastero di Rongbuk, appena al di sotto del tradizionale campo base dell’Everest. Armato dello stesso ottimismo che gli aveva permesso di sorvolare un infinito deserto arroventato l’anno precedente e di uno zaino di soli 20 kg Wilson si diresse solitario verso il ghiacciaio del Rongbuk, puntando al Campo III delle precedenti spedizioni inglesi con la speranza di raggiungere la vetta il giorno del suo compleanno, il 21 aprile. Nonostante essersi perso più volte sull’immenso ghiacciaio, con la temperatura ormai scesa a 30 gradi sottozero, fu in grado di arrivare non troppo distante dal Campo III, superando la quota di 6.000 metri. Una tempesta poi lo costrinse però a desistere, almeno temporaneamente, dal suo intento e a fare ritorno con grosse difficoltà al monastero di Rongbuk, dopo sedici ore di cammino nella neve fresca e dopo aver trascorso in completa solitudine nove giorni sulla montagna.
Dopo tre settimane di recupero, accompagnato questa volta da due sherpa, partì il 12 maggio 1934 alla volta del Campo III a 6500 metri di altezza, che venne finalmente raggiunto e in appena tre giorni. Il vento e il freddo bloccarono però l’avanzata dei tre uomini, costretti per giorni nelle tende, soffrendo il freddo, la fame e il mal di montagna. Col migliorare delle condizioni meteo Wilson partì da solo verso il Colle Nord, situato a circa 7000 metri, dormendo all’aperto, su lastroni di ghiaccio esposti alle intemperie, ma venendo sconfitto da una parete di ghiaccio che aveva già bloccato la ben più attrezzata spedizione inglese del 1933. Stremato, senza nessun tipo di assistenza e privo di un benché minimo equipaggiamento adeguato all’impresa – i ramponi che utilizzò erano stati recuperati in una tenda abbandonata di una spedizione del 1933 – Wilson tornò al Campo III. La delusione fu tanta ma non abbastanza dal farlo desistere da quella che era diventata una ossessione. Il 29 maggio, dopo aver cercato inutilmente di convincere gli sherpa che lo accompagnavano a tentare con lui per un’ultima volta un’impresa palesemente irrealizzabile, partì da solo puntando direttamente il Campo V. Quello fu il suo viaggio verso la morte. Il suo corpo fu ritrovato l’anno seguente dalla spedizione guidata da Eric Shipton, vicino alla sua tenda. Fu recuperato anche il suo diario e la salma fu fatta scivolare in un crepaccio.
Dal suo rinvenimento, o meglio dal ritrovamento del suo diario, iniziò una serie di illazioni riguardo la sua presunta mistica pseudo-cristiana di digiuno e preghiera che lo avrebbe convinto a poter conquistare l’Everest e sull’inevitabile finale della sua dilettantesca avventura. Non mancarono nemmeno voci che si spinsero addirittura a disquisire sulla possibilità che Wilson fosse un feticista di indumenti femminili tanto da portarne dietro in quantità persino sul tetto del mondo. Le notevoli critiche postume al povero Wison, perpetrate principalmente tramite affermazioni che non tenevano conto del valore complessivo della sua avventura e della sua trasvolata, furono dovute principalmente all’atteggiamento dell’Alpine Club inglese, della Royal Geographic Society e del governo britannico per i quali la conquista della montagna più alta della terra sarebbe dovuta avvenire in nome dell’intera nazione da parte di una squadra di esperti scalatori. L’orgoglio della nazione era stato profondamente svilito dalla crudezza della Grande Guerra, l’Inghilterra ne era uscita con profondi debiti e con la consapevolezza di essere ormai la pallida ombra dell’impero vittoriano di pochi decenni prima. La concorrenza tra le nazioni iniziava a spostarsi sulle imprese sportive e l’alpinismo incarnava una disciplina volta ad esaltare le qualità di una parte ristretta di soggetti portatori dei più alti valori patriottici – l’ossessione che la parete nord dell’Eiger rappresentò per la Germania nazista ne è un esempio.
Wilson era sicuramente un principiante nel mondo dell’alpinismo e probabilmente prima di partire non aveva ben chiare le enormi difficoltà con cui si sarebbe dovuto confrontare, ma era spinto da una tenacia e da una forza di volontà fuori dal comune che gli permisero una trasvolata ai limiti dell’impossibile e di raggiungere comunque la considerevole quota di 6500 metri, senza nessuna forma di sostegno da parte delle associazioni alpinistiche del suo paese.
Non sappiamo con certezza quali furono le sue più intime motivazioni, né perché volle continuare fino al sacrificio della sua stessa vita anche di fronte alla palese impossibilità di conquistare l’Everest da solo. Quello che si può dire in maniera piuttosto univoca è che sicuramente non era spinto da motivi patriottici, più probabilmente da motivazioni personali molto profonde, da una buona dose di pura incoscienza o forse da un puro e semplice stato di necessità che spinge a volte l’essere umano spingersi oltre, oltre le convenzioni, oltre i propri limiti e il proprio senso di finitezza. D’altronde si narra che quando i giornalisti chiesero a George Mallory una decina d’anni prima perché volesse a tutti i costi arrivare in cima alll’Everest lui rispose laconicamente “Perchè è lì“.
Illustrazione a cura di Tania Costa.
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