Emil Zátopec, il mitico mezzofondista e fondista cecoslovacco vincitore di quattro ori olimpici, una volta disse: “Non ho abbastanza talento per correre e sorridere allo stesso tempo”.
Da amante della corsa “domenicale”, ho sempre trovato nella pratica dell’andare una dimensione individuale, meditativa, di concentrazione su me stesso. La ricerca della trance e del distacco dalla realtà: la mente attenta al respiro, ai movimenti, al ritmo della falcata. Un superamento del proprio limite fisico.
Ma questa non è la mia storia, è la storia di Elia. Un ragazzo che corre e sorride. Un ragazzo autistico che io non conosco personalmente, ma so che ha gravissime carenze nelle capacità sociali e una ipersensibilità agli stimoli ambientali, che spesso gli impediscono la condivisione di qualcosa di piacevole con gli altri, anche le cose ai nostri occhi più banali.
Perché l’autismo è una cosa strana. Viene chiamato anche disturbo pervasivo dello sviluppo e ha a che fare con il sistema nervoso, compromettendo le aree sociali e della comunicazione, quelle che alla fine ti fanno assumere comportamenti rituali e ripetitivi, spesso ossessivi, e qualche volta comporta difficoltà motorie.
L’autismo non è una malattia, è una condizione, un modo diverso di stare al mondo, che spesso risulta un gran bel casino perché viene percepito come una massa caotica di persone, luoghi ed eventi, creando notevole stress e ansia alle persone affette dall’autismo. Una condizione di disabilità che permane per tutto l’arco della vita.
Le cause sono tutt’ora ignote (forse in parte genetiche, forse in parte ambientali) e non esiste alcun test o esame neurologico per diagnosticarlo prima della nascita. Il campo è molto aperto, perché ci sono differenze evidenti tra le persone autistiche – si dice, infatti, che non esistono due persone con lo stesso autismo, – per cui negli ultimi tempi si tende a parlare della condizione a spettro, ovvero si valuta diversità percettiva e cognitiva (spesso superiore alla norma, nei casi dell’autismo ad alto funzionamento) nonché l’acquisizione del linguaggio.
Lo sport, inteso non nella sua accezione agonistica, che crea ansia e frustrazione a tutti, ma nella sua veste ludico-ricreativa e di scambio sociale, è una risorsa preziosa, dal momento che favorisce lo scambio relazionale in un contesto di gioco strutturato come l’attività sportiva. Inoltre ha un effetto rilassante e acuisce emozioni che aiutano ad uscire dal rituale autistico, favorendo l’apertura e la condivisione.
E infatti Elia, anche solo percorrendo il perimetro della palestra, a scuola, durante l’ora di attività fisica, sorride al compagno di classe che gli sta accanto, spesso sostiene lo sguardo (una delle difficoltà maggiori per le persone autistiche) fino a che l’altro non ricambi con un cenno. Nonostante le limitazioni relazionali dell’autismo, Elia durante le attività sportive ha voglia di stare insieme agli altri. Il legame sembra proprio essere la corsa, la possibilità di riprendere il controllo del proprio corpo, spesso percepito come tanti parti separate in discordanza. Il proprio gesto atletico che diventa socializzazione: la comunicazione del proprio atto motorio.
È da questo sorriso che Elia, o meglio chi gli sta attorno, scopre la sua attitudine e il suo benessere: la corsa.
«Elia corre» – dice, chiede, aspettando il permesso di poter partire.
Certo, il suo inserimento in una squadra di atletica composta da ragazzi disabili ha avuto le sue difficoltà: un primo disorientamento negli spazi aperti, l’interruzione brusca di una falcata per sdraiarsi pancia a terra per osservare meglio una foglia o una farfalla, l’immane fatica nel dover restare fermo ad ascoltare lo “spiegone” di dieci minuti dell’allenatore Ugo prima di iniziare gli esercizi.
Sono serviti accorgimenti e piccole malizie, come un cappellino colorato da osservare a distanza per fargli seguire una linea immaginaria fuori dalla pista di atletica, o i testimoni della staffetta a bordo pista da prendere a ogni giro per capire quanti ne sarebbero mancati alla fine della gara.
Però Elia corre, e corre veloce: divora la strada. Solo che per lui la corsa è un’esperienza di tipo collettivo. Non corre per battere gli altri, ma per stare insieme agli altri. Appena allunga si ferma sempre ad aspettare gli altri, altrimenti che senso ha?
Nelle corse a lunga percorrenza, maratone o strade di campagna che siano, il problema non esiste: è sempre accompagnato da un operatore che ne affianca il passo, che ne motiva l’incedere. Ma nelle gare su pista è diverso. Nei 400 metri, data la brevità del percorso, il problema non emerge: in genere frena la corsa una volta tagliato il traguardo, quando il suo allenatore gli va incontro a braccia spalancate. Negli 800, invece, quasi sempre si ferma alla fine del primo giro, aspettando l’arrivo del primo inseguitore che l’avrebbe raggiunto, staccandolo nuovamente nel finale, alla ricerca dell’abbraccio di Ugo.
Elia non è in grado di esprimere a parole le sue emozioni perché non ha mai acquisito un linguaggio autonomo. Elia ripete poche frasi e per comunicare usa vari supporti visivi.
Esistono tuttavia testimonianze di persone autistiche sul loro benessere psicofisico ed emotivo nel praticare lo sport, come quella di Naoki Nigashida, un ragazzo giapponese che a 13 anni ha scritto una sorta di autobiografia, Il motivo per cui salto, dove tra sensazioni e aneddoti racconta il piacere della corsa. Sempre insieme gli altri, però!
“Mi piace correre, ma quando mi rendo conto di dover correre velocemente, non ci riesco. Se corro tanto per divertirmi, con i miei compagni, posso andare avanti finché voglio: è come se anche il vento diventasse il mio amico. Spesso mi dicono che sono molto bravo a scappare, ma la verità è che, quando qualcuno mi insegue e sta per raggiungermi, oltre al divertimento provo un po’ di paura. Questo mi spinge a fare uno scatto e a filare via come un razzo.
Il motivo per cui non riesco a correre bene, quando so di doverlo fare, non c’entra col sistema nervoso. Piuttosto, appena cerco di prendere velocità, comincio a pensare al modo in cui dovrei muovere braccia e gambe, e a quel punto il mio corpo si blocca. Ma non è l’unica ragione per cui non me la cavo bene nelle gare: battere gli altri non mi dà nessun piacere. È giusto dare il meglio di sé, però questo desiderio di arrivare primi è un discorso diverso. Quindi, durante le competizioni – come le giornate sportive a scuola – mi godo semplicemente il fatto di essere lì, e finisco per correre con la fretta di una persona che attraversa un prato saltellando.”
Bibliografia
Maurizio Arduino, Il bambino che parla con la luce, Einaudi, Torino 2014.
Luigi Mazzone, Un autistico in famiglia, Mondadori, Milano 2015.
Naoki Higashida, Il motivo per cui salto, Sperling & Kupfer, Milano 2014.
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