1961, Junin, Argentina.
Eravamo lì, sdraiate una sull’altra, dentro polverosi scatoloni dimenticati, in un magazzino altrettanto polveroso e oramai in disuso. Avevano deciso di mandarci in pensione e ci avevano imballato e dimenticato troppo velocemente. Del resto, come si fa un po’ con tutto nella vita. La dirigenza della birreria Quilmes aveva disegnato nuove etichette per le bottiglie di birra e noi, vecchie etichette storiche avanzate, eravamo destinate ad ammuffire lentamente tra le mura di squallidi scatoloni di cartone. Ma la nostra fibra forte, resistente all’acqua e al freddo del frigorifero era dura a morire. Ognuna di noi sapeva che un giorno sarebbe ritornata a rivedere il sole, anche solo per l’ultima volta; oppure che avrebbe volato leggera nell’aria per un ultimo viaggio, come quando ci staccavamo, esauste e bagnate, dalla bottiglia di vetro. Nessuna di noi poteva però immaginare un finale così glorioso.
Improvvisamente un movimento, come se stessero spostandoci in un altro luogo. Voci confuse parlano di un “regalo” che i dirigenti della birreria stanno facendo ai tifosi della squadra di calcio dei “cerveceros”, il Quilmes Atletico Club. Impaurite, chiuse negli angusti scatoloni di cartone non sappiamo che cosa ci sta per accadere. Ci stanno trasportando da qualche parte ma non conosciamo la destinazione. Viaggiamo per un tempo che può sembrare un minuto come una vita, viaggiamo senza conoscere la nostra sorte. Il viaggio si arresta, il mezzo di locomozione si spegne e due braccia trasportano lo scatolone con forza e decisione verso un luogo dal cui proviene un rumore festosamente assordante: cori, urla, fischi e trambusto. Il pacco viene poggiato delicatamente a terra e, in una frazione di secondo, uno squarcio si apre nel cartone: sarà stata la paura, l’emozione, l’agitazione o chissà cosa, ma molte mie sorelle etichette, si riversano disordinatamente per terra, fuoriuscendo dallo scatolone. La luce intensa e il rumore ci stordiscono ed improvvisamente veniamo afferrate da migliaia di mani. La gente ci accarezza come fossimo reliquie, come fossimo oggetti facenti parte di uno spettacolo.
E in realtà è proprio così. Lo stadio è in festa e i tifosi del Quilmes stanno aspettando l’ingresso dei loro beniamini e noi non capiamo ancora che cosa ci stia succedendo. Ma l’adrenalina, quella che ti attanaglia nel tunnel degli spogliatoi, sta pian piano aumentando: i primi tifosi del Quilmes iniziano a lanciare le etichette in campo proprio mentre i giocatori fanno il loro ingresso sul rettangolo verde. E poi, tutti insieme, in un lancio collettivo. Voliamo leggere nell’aria, baciate dal sole argentino. Ci siamo lasciate alle spalle la paura e il timore di una fine ingloriosa e adesso che voliamo nell’aria ci guardiamo tra noi sorridendo, consapevoli che non c’è modo migliore, per un’etichetta, di uscire di scena: diventare un Papelitos e riposare sul verde di un campo da calcio, dopo aver portato, per la prima volta, gioia, colore e allegria. E sul quel prato, tutte insieme, facemmo l’amore per l’ultima volta prima di volare via nel vento argentino profumato di tango, calcio e melanconia, lasciando la scena ai nostri figli.
E i nostri figli arrivarono circa una quindicina di anni dopo, insieme alla dittatura e ai Mondiali del 1978. Non potendo proibirci, sarebbe stato impossibile, venne creata una campagna che, unita ad altre, presentava l’Argentina del terrore di Stato come il Paese delle Meraviglie, convincendo i nostri connazionali a comportarsi più civilmente davanti agli occhi del mondo. Portavoce ideale di questa campagna divenne il più famoso cronista di calcio dell’epoca, José M. Muñoz, detto “el gordo”, che assunse il ruolo con grande impegno. Impegno che andò oltre i Mondiali e oltre il calcio, giacché l’anno successivo si fece portavoce, assieme ad altri giornalisti, della campagna che tentò di impedire la visita in Argentina del Comitato internazionale sui Diritti umani. E se Muñoz era il più famoso cronista sportivo argentino dell’epoca, il personaggio di strisce umoristiche più celebre era Clemente, un simpatico e surreale essere vagamente somigliante a un papero, ma senza ali, né mani, le cui caratteristiche fondamentali, oltre ad incarnare alcuni dei “vizi” argentini più popolari, erano l’adorazione per le donne prosperose, le olive (diventate personaggi pure esse) e, naturalmente, il calcio.
Il suo disegnatore, Carlos Loiseau, in arte Caloi, con grande intuito e non poco coraggio, capì che Clemente sarebbe stata la voce tramite cui, in modo indiretto ma inequivocabilmente popolare, si esprimeva la difesa del nostro lancio in campo. Per quasi tutto quel fatidico ’78, ebbe luogo questa strana ma seguitissima battaglia: da un lato un cronista sportivo schierato con l’ordine e la disciplina benpensante e militaresca, dall’altra un buffo personaggio dimostratosi da subito più di acciaio che di carta, nonostante la sua caratteristica indolenza. Per Clemente il cognome del suo avversario passò ad essere Murioz, gioco di parole con il verbo morir, e dalla striscia domenicale incominciò la sua scherzosa arringa a favore di noi papelitos. La polizia arrivò al ridicolo di voler confiscare i giornali che ogni tifoso portava allo stadio Monumental il giorno dell’inaugurazione dei Mondiali, ma quando la squadra argentina entrò in campo e i nostri figli scoppiarono in una pioggia albiceleste, tutti capirono che Clemente aveva vinto non soltanto sulla carta, ma anche sull’erba. A dargli una mano ci furono i cartelloni luminosi dello stadio, evidentemente non controllati dall’AFA, sui quali apparì l’immagine di Clemente e la scritta: Tiren papelitos, muchachos.
Muñoz non ebbe altro rimedio che riconoscere la sconfitta e, davanti al nostro trionfo, disse qualcosa come: E va bene, ragazzi, lanciate questi benedetti papelitos!
Clemente aveva vinto. Non solo la sua battaglia, ma quella del popolo argentino.
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