L’estate scozzese non si può propriamente definire torrida e l’atmosfera che si respira appena varcata la soglia del Greyfriars Kirkyard di Edimburgo è tanto gelida quanto cordiale. I turisti si mischiano ai residenti impegnati a sfruttare gli spazi per leggere, studiare o semplicemente fare una corsa. Alcune lapidi sono lì da così tanto tempo che ormai appaiono irriconoscibili per la quantità di alghe e muschi radicati sopra. Non c’è spazio, comunque, che possa dimostrare gli oltre 500 anni che si porta sulle spalle. Il rapporto degli anglosassoni con questi luoghi è molto più “disteso” e meno legato a un luogo di sola sepoltura. Non a caso la poesia cimiteriale è nata proprio in queste zone.
Da tempo volevo girare con calma il Cimitero Monumentale di Staglieno, considerato uno dei più importanti d’Europa. Sorto circa tre secoli dopo il Greyfriars Kirkyard contiene molti personaggi illustri e altri che, onestamente, non conoscevo. Poco dopo l’ingresso, tra le tombe di Gilberto Govi e Fabrizio de Andrè, fa bella mostra di sé quella di Ottavio Barbieri, che esordì nel Genoa grazie al tecnico Enrico Pasteur, che lo aveva notato durante una amichevole e a cui aveva proposto di giocare anche il giorno successivo in prima squadra nel match che vedeva impegnati i rossoblu contro una squadra di professionisti inglesi, i British Head Quarters (momentaneamente impegnati sotto le armi). L’eccellente prestazione gli valse il posto da titolare nel Genoa per la stagione successiva, che sarebbe stato allenato dall’inglese William Garbutt, colui che per primo venne chiamato “mister” nell’accezione da tutti noi oggi conosciuta, dai settori pulcini ai palcoscenici delle squadre più titolate. Allenò il Grifone per 15 anni, dal 1912 al 1927 (fece poi ritorno nel dopoguerra dopo qualche esperienza in Italia e all’Estero). Celebre la sua frase, citata nel libro di Gianni Nicolini “La Storia del Napoli”: «[…]se tra voi c’è qualche fuori-classe lo sopporterò, altrimenti per fare una grande squadra mi accontenterò soltanto dei.. grandi giocatori, cioè di quei giocatori che hanno il coraggio grande, il cuore grande. Chi non ha queste virtù non è un grande giocatore, e neanche un mediocre giocatore. È soltanto nulla, quindi può vestirsi ed andarsene subito.»
Attraversando boschetti di castagni e il meraviglioso prato all’inglese dei soldati britannici caduti, lo spazio si apre su di una strada che porta a una statua raffigurante un giovane proteso in avanti nell’atto di tagliare la linea di un traguardo immaginario: è Alfredo Gargiullo, lo sprinter genovese che alle Olimpiadi di Parigi del 1924 arrivò in finale raggiungendo il sesto posto finale nella staffetta 4×400, dopo aver piazzato un secondo posto nelle batterie precedenti. Di lui non si trova moltissimo nelle carte, sia in rete che presso le biblioteche cittadine. Emilio Lunghi, mezzofondista genovese suo coetaneo, lo cita come amico sincero in quegli anni. Gargiullo morirà giovanissimo, all’età di 21 anni.
Ahimè, lo stato di manutenzione del Cimitero Monumentale di Staglieno è però assai lacunoso. Eppure, visti i numerosi collegamenti anglosassoni, sarebbe un biglietto da visita notevole poter presentare ai turisti una tra le collezioni di statue, bronzi e marmi più notevoli d’Europa. Tra i grandi che scrissero del loro passaggio tra le mura cimiteriali di Staglieno vi sono Friedrich Nietzsche, Guy de Maupassant, Mark Twain e il famoso romanziere britannico Evelyn Waugh, che colse l’occasione per testimoniare quanto segue: «Il Camposanto di Genova, nel pieno e vero senso della parola, è un museo dell’arte borghese della seconda metà del secolo scorso. Il Père Lachaise e l’Albert Memorial sono nulla al confronto e la loro scomparsa non sarebbe una perdita grave fino a quando questa collezione esisterà».
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