Manca una settimana all’inizio delle danze. Ovvero, ai playoff Nba 2017. Il quadro non è ancora definito e delineato: almeno quattro, cinque squadre stanno lottando per accaparrarsi gli ultimi posti che valgono l’accesso alla post season. A Ovest, Denver e Portland, mentre a Est Miami, Indiana e pure Charlotte hanno la possibilità di agganciare il treno.
Due considerazioni sulla stagione regolare che si avvia alla conclusione: per la prima volta da anni la lotta per il titolo di MVP non è così scontata. Curry, reduce da due affermazioni consecutive, è fuori dai giochi: il top a mio parere è il numero 0 di OKC, Russel Westbrook, che ha pareggiato il record di triple doppie in stagione di Oscar Robertson (41) e si appresta non solo a superarlo, ma addirittura a chiudere la stagione a tripla doppia di media. Davvero impressionante. Gli altri contender sono l’eterno LeBron James, Kawhi Leonard degli Spurs (per me arriverà terzo), comunque pronto a stringere tra le mani il premio di difensore dell’anno per il terzo anno di fila. Unico capace di impensierire Westbrook è il Barba Harden, che sta giocando una stagione stellare grazie a una chimica di squadra che, a Houston, non si vedeva da secoli e al gioco corri e tira importato in Texas da Mike D’Antoni.
Tra le brutte notizie di questo 2016/17 il declino di Dallas, con Nowitzsky che ha superato quota 30mila punti in carriera, il naufragio (per me imprevisto) di New York, che non è riuscita a combinare nulla, davvero nulla di buono pur avendo in squadra gente come Carmelo Anthony, Derrick Rose, Joakim Noah e Kristaps Porzingis, con quest’ultimo che continua a far vedere sul parquet cose sublimi. Evidentemente, e lo dico con rammarico e amarezza, Phil Jackson ha perso il tocco. O forse, semplicemente, l’attacco a triangolo funziona solo se hai gente del calibro di MJ o di Kobe come terminale. Mediocre la stagione di Chicago, che andrà ai playoff, ma è andata a corrente alternata per tutta la stagione, tra i litigi di Rondo (con tutti, con se stesso, col pallone, anche con me!) una chimica di squadra instabile, nonostante l’esplosione di Butler (davvero un top player) e l’eterno Wade, “tornato a casa” nella sua città nativa e capace di dimostrare, ancora una volta, di essere un campione.
L’altra considerazione da fare è che nessuna delle squadre di vertice, quest’anno, comunica un senso di onnipotenza. Partiamo dai campioni in carica, i Cavaliers: al momento in cui scrivo hanno battuto Boston e hanno recuperato il primo posto in graduatoria ad Est dopo aver infilato un mese di marzo da incubo (10 sconfitte). Stanno tentando di recuperare i numerosi infortunati: Kevin Love ha ripreso a calcare il campo, ma deve ancora trovare la forma migliore, Korver (specialista del tiro da 3 preso da Atlanta a metà stagione) è out, come anche Andrew Bogut, la cui stagione in riva al lago è durata neanche una partita. Al mercato di riparazione sembrava che Cleveland si fosse mossa meglio di ogni altra franchigia: alla corte di King James sono arrivati Bogut, Korver e un veterano come Deron Williams, tre volte All Star neanche troppi anni fa, ma che sembra incappato in una involuzione inarrestabile. Se si somma questo ai tre infortuni, è evidente come tutto il lavoro rimanga nelle mani di LeBron James e Kyrie Irving. Due maestri della palla a spicchi, ma che non possono fare da soli, per quanto il 33enne James sembri, a vederlo giocare, un rookie per potenza e un 50enne per esperienza e intelligenza cestistica.
Chi aveva superato (fino a ieri notte, perdendo nello scontro diretto coi campioni) Cleveland in testa alla Eastern conference sono gli stupefacenti Celtics di Thomas, una squadra con una stellina di 175 cm di altezza, un funambolo di grande concretezza e un bel roster solido. Anche arrivassero primi, è evidente che in finale ci arriverà Cleveland, capace – e lo ha dimostrato – di tirare fuori il meglio di sé nella post season (già due stagioni fa il primo posto in stagione regolare non fu loro, ma di Atlanta. In finale, comunque, andarono gli uomini di James).
Discorso decisamente e come al solito più complesso per l’Ovest. Qui le contender sono almeno 3: gli Warriors sono i più forti, in assoluto, sono in testa alla Conference e sono i più accreditati per la vittoria finale. Curry continua a far vedere meraviglie, forse ci siamo tutti abituati a vederlo tirare e segnare da 700 metri, ma – complice una stagione comunque non stellare, con qualche momento di normalità e un paio di passaggi a vuoto – non sarà MVP. Tralasciando Thompson – secondo me un poco sopravvalutato, ma comunque un signor giocatore – alla banda di Steve Kerr si è aggiunto Kevin Durant, uno dei giocatori più completi ed eleganti che questo sport abbia mai visto. Non deve essere stato facile regolare la macchina, già ben oleata, con l’inserimento di un super giocatore Alpha come lui, ma sulle rive della Baia sembrano esserci riusciti. Nonostante ciò, e forse memori della passata stagione, i gialloblu non hanno neanche provato a eguagliare o superare (è possibile?) il record di 73 vinte e 9 perse della scorsa stagione. Bello superare i Bulls di Jordan, ma a che serve se poi, in Finale, si arriva spompati e a vincere sono gli altri? Dicevo che neanche gli Warriors comunicano un senso di onnipotenza: sono i più forti, ma non sembrano in grado di venir fuori proprio da ogni situazione. Se qualcosa si inceppa – e a volte, com’è fisiologico, succede – sembrano in difficoltà. Vedremo.
Le altre due che possono impensierire i vicecampioni sono gli Spurs e i Rockets. I neroargento hanno assorbito alla grande l’addio di Tim Duncan (e non è cosa da poco) grazie a un Leonard che adesso è una potenza anche in attacco, e un leader di spogliatoio, ma anche grazie agli innesti di Gasol (che sembra non conoscere gli effetti del Dio Cronos) e di Aldridge che, alla seconda stagione a Fort Alamo, sembra uno nato e cresciuto con gli speroni ai piedi. Il solito capolavoro di Gregg Popovich, che può contare su due mostri sacri che fanno anche da allenatori in campo come Manu Ginobili (40 anni a luglio) e Tony Parker che, pur in discesa, è sempre Tony Parker. Dalle parti di Houston si sorride: sono loro la vera outsider, la mina vagante. James Harden è in stato di grazia (si è messo persino a difendere, un poco) e la squadra veramente gioca a memoria, grazie a un santone come Mike D’Antoni, che ha portato in Texas il suo modello “corri e tira”. Un tipo di gioco che prevedrebbe, in teoria, di arrivare alla conclusione in 7 secondi, andando come missili e tralasciando un poco la fase difensiva. Musica, immagino, per le orecchie di un attaccante puro come Harden. Una squadra rinata, anche e soprattutto grazie all’addio di Dwight Howard (verso la natia Atlanta), un mastodonte di immensa potenza, gran difensore, non certo un centometrista e, soprattutto, uno che ha litigato con tutti in ogni squadra in cui sia capitato, in particolare dove ha dovuto fare i conti con un altro gallo nello stesso pollaio (leggasi Kobe a L.A. e, appunto, Harden in Texas).
Tirando le fila, io la vedo così: candidata al titolo Golden State, che però dovrà faticare parecchio per arrivare integra e con un poco di “benza” nelle gambe (intanto Durant giocherà, dopo l’infortunio, le ultime partite di regular season. Sarà al meglio?). Pronte ad approfittarne Spurs e Rockets, con questi ultimi che, se le cose dovessero restare così, al primo turno troveranno i Clippers, ormai all’ultima chiamata per combinare qualcosa di buono con la triade Paul, Jordan, Griffin. A Est, invece, trionferanno i Cavaliers, senza dover neppure faticare eccessivamente. LeBron James è troppo forte. Forse riusciranno pure a farlo riposare un po’, e allora in Finale ne vedremo delle belle. Pensare al back-to-back è impossibile?
Ps
A fine stagione “The Truth”, Paul Pierce, dirà basta. Un altro grandissimo che chiude col basket giocato. Indossa la casacca dei Clippers, quindi non vincerà l’anello. Ma, come già annunciato, firmerà un contratto di un giorno con i suoi amati Celtics, per chiudere la carriera in biancoverde. Lacrimuccia.
Nicola Cavagnaro
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