Adesso è finita. Trent’anni e una creatura in grembo.
Non penso al rischio di perdere il mio gran posto di lavoro da cassiera di supermercato, contratti ballerini creati ad hoc. Penso al fatto che non potrò più giocare a calcetto. Non pensate male, diventare mamma è la cosa più bella che possa capitarmi e sono pronta a dare tutta me stessa ma…
Diego continua a ripetermi: «Amore potrai andarci ogni volta che vuoi, starò io con il bambino», ma adesso non saprei proprio come fare ad accettare una cosa simile. Le ragazze mi aspettano, il mister mi maledice bonariamente e ogni volta che mi vede ripete sempre: «Avevamo detto che fino a luglio non si poteva concepire alcunché! Bastarda!». Bastarda, è questo che sono sempre stata per gli altri, la bambina che giocava a pallone con i maschi e che tornava a casa con le ginocchia sbucciate. La mamma non mi faceva indossare la gonna nemmeno in estate perché si vedevano i segni delle contese e si vergognava. Eh sì, ero proprio bastarda. Mia mamma si vergognava pure del fatto che giocassi a pallone. Il paese era piccolo, ci conoscevamo tutti e quindi la gente avrebbe potuto mormorare; non ho mai sentito una parola sul mio amore per il calcio, ma credo che qualcosa sia stato detto. In un piccolo borgo di campagna, a un quarto d’ora di strada dalla vita, era abbastanza facile apparire strana soprattutto se uscivi da certi schemi. Gli anni Novanta in certi luoghi corrispondono al primo dopoguerra in città, intendo per stile e mentalità. Non me ne curavo, giocavo sperando di emulare Lothar Matthaeus e Nicola Berti. Il ritrovo era la piazza, posta nella parte più alta del paese e con una leggera pendenza a rendere tutto più difficile e intrigante. La porta era la saracinesca del box auto del padre di uno dei ragazzi, al piano terra di uno dei tre palazzi signorili che sorgevano lungo il perimetro del campo, con la chiesa a chiudere il quarto lato. Quando eravamo in numero sufficiente per la partita usavamo due sedie da giardino per formare l’altra porta. Non ci importava niente del fatto che in paese non ci fosse il campetto, di terra ce n’era tanta intorno ma serviva ai contadini. Era pura magia, i grandi che ci brontolavano dalle case perché facevamo rumore durante l’ora della pennica, i palloni sotto le marmitte, tutto fantastico. Ragazzi con i motorini, giovani amori, baci e litigate, vecchi a giocare a carte ai tavolini del bar, ma al centro della piazza, al centro di tutto, c’eravamo noi con il pallone a discutere se, nella porta fatta con le seggiole, il pallone avesse o meno sorvolato l’immaginaria traversa: la goal-line technology esisteva già, ed era la nostra mente, la nostra immaginazione. Amici milanisti e juventini imitavano le gesta che i loro beniamini compivano durante le finali mentre io, da interista, dovevo abituarmi all’addio di Zenga visto che il fegato per gli sfottò me lo ero già fatto.
Quando avevo quattordici anni la squadra di calcio del comune dove risiedevo, situato a una quindicina di chilometri dal paese, decise di allargare le proprie vedute e di provare a tirar su una squadra femminile. Un’idea che destò curiosità e che aiutò a sbolognare certi pregiudizi anche se non tutti, ad esempio: come fate lo stop di petto?, si dice marcatura a uomo o a donna?, siete tutte lesbiche, e così via. Riuscii facilmente a convincere i miei genitori a farmi iscrivere e finalmente realizzai il mio sogno: giocare in una squadra vera. Eravamo poche, tredici, e spesso ci ritrovavamo alle partite che non eravamo nemmeno undici. Che batoste, ma era bello. Già, all’inizio tutto era bello poi però ti manca la fantasia, ti senti ingabbiata: giri di campo, allunghi, gradoni, tattica, tutte vestite uguali con maglie color pastello a tinta unita, roba da far rimpiangere le fruit bianche. Sembravamo l’esercito, a volte avevo la sensazione che i risultati raggiunti fossero più per far felici dirigenti, mister e alcuni genitori, piuttosto che noi stesse. Invece quando mi ritrovavo in piazza non contava il risultato, finiva tutto all’ora di cena con un «oh, ci vediamo domani eh, finiti i compiti, verso le quattro!».
I motorini, l’adolescenza, i primi amori, mandarono tutto all’aria piano piano e la piazza divenne vuota, silenziosa. Si spensero i riflettori e nessun ragazzino dopo di noi li ha più riaccesi. Le sedie e la saracinesca tirano un sospiro di sollievo, la pennica pomeridiana va avanti indisturbata, le bestemmie di chi si fa ammazzare il tre con l’asso rimbombano fino dentro la chiesa dove il parroco prova a scusarsi con il suo superiore. I figli delle mie amiche sono tutti iscritti nelle scuole calcio, quando non si allenano stanno ai videogiochi o con l’iphone in mano, non parlano, non fanno la conta per formare le squadre, non bisticciano. Non c’è più fantasia, la tecnologia e fantomatici allenatori hanno raffreddato tutto, confinato il calcio in campi sportivi che somigliano più a delle caserme che a luoghi dove sognare. Bimbi vestiti tutti uguali e messi in fila indiana a fare esercizi noiosi per un’ora e mezza, contornati da genitori ambiziosi e allenatori frustrati che spesso credono di poter riscattare una vita di merda allenando una squadra di ragazzini, sentendosi maestri.
Oggi vivo in città, tra strade trafficate, tangenziali e palazzoni obsoleti. C’è una piazzetta dietro casa dove ogni sabato mattina viene allestito il mercato rionale. La gente dell’isolato si riversa abitualmente tra le bancarelle e i furgoni mentre i ragazzini attendono impazienti lo sgombero per poter riscattare il proprio territorio. Una banda ribelle ma in senso buono, così li ho definiti. Giocano a pallone contro i pregiudizi della gente e contro le abitudini dei loro coetanei. Quando eravamo bimbi noi ci sgridavano se non uscivamo di casa; oggi, dai terrazzi sopra la piazzetta, sento persone che si lamentano del fatto che si giochi a pallone, quelle stesse persone che dicono: «i giovani di oggi: sempre con i telefonini in mano». Spesso mi fermo a guardarli con un po’ di nostalgia e invidia. Sfide interminabili, biciclette appoggiate ai muri e scuse ripetute agli anziani seduti alle panchine. E’ un mondo incantato quella piazza piena di ragazzi che sfidano tutto e tutti. Bimbi italiani che hanno accolto tra loro il bimbo pakistano del quartiere, figli di genitori che si discriminano tra loro per il cibo, le usanze, la religione, la nazionalità. Nessun allenatore a dire loro cosa fare, a minacciare loro con un’eventuale sostituzione se fanno nuovamente un colpo di tacco. Non vanno incontro ai sogni, semplicemente giocano senza pensare ai guadagni milionari dei loro beniamini, senza pensare al risultato. Nessuna discriminazione, solo voglia di stare insieme.
Giocano, semplicemente.
di Roberto Balio
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