E’ una delle immagini più popolari del secolo scorso, seconda soltanto al celeberrimo primo piano di Ernesto Guevara de la Serna, scattato da Alberto Korda a l’Avana nel 1960. E proprio come la foto del Che, è diventata un’icona, un’effigie, una litografia da stampare e ripetere su poster, magliette e spille. Ma la storia che sta dietro ai quei pugni alzati, al sacrificio e alla gloria di John Carlos e Tommie Smith sul podio dei 200 metri piani alle Olimpiadi di Città del Messico nel 1968, poche volte è stata raccontata. Lo fa oggi Lorenzo Iervolino con Trentacinque secondi ancora (66thand2nd, 2017), libro che ricostruisce con precisione storica il prima e il dopo di quell’istante, reso infinito dalla Nikon di John Dominis, ai tempi fotoreporter per Life Magazine.
“Mostrano sempre l’immagine. Ma non raccontano mai la storia“, ha ricordato John Carlos di quel momento e di tutto ciò che è accaduto attorno al black power salute. E proprio l’immagine, la riproducibilità e la sua diffusione, paradossalmente, sono state la condanna che John Carlos e Tommie Smith hanno dovuto patire. La società americana, incapace di garantire pari diritti ai suoi cittadini, per anni ha infatti represso la protesta dei due atleti afroamericani, cancellando la loro vicenda dalla memoria collettiva e confinandola in un fotografia, che, ripetuta all’infinito, ha portato ad uno svuotamento del significato di quei pugni alzati. L’importanza del lavoro di Lorenzo Iervolino – come già avvenuto per Socrates in Un giorno triste così felice – sta proprio qui: nell’opporsi alla moltiplicazione dell’immagine, nel riportare l’occhio del lettore proprio a quell’ottobre del 1968 a Città del Messico, nel sottolineare l’umanità dei protagonisti e nel ri-caricare quell’istante del senso di protesta, di quella portata rivoluzionaria ed eversiva per cui Carlos e Smith furono condannati a damnatio memoriae dal loro paese e dalla Storia. Tramite un attento lavoro di ricerca e testimonianza, le lancette del tempo tornano indietro e pongono il lettore dietro l’obiettivo di John Dominis, giusto un attimo prima che l’otturatore si apra e la pellicola venga impressionata dalla luce. Questo è il grande merito di Trentacinque secondi ancora: ridare unicità ad un gesto che, a causa della sua riproducibilità, è stato depotenziato per scopi politici e spostare l’attenzione dalle molte riproduzioni, all’uno vero di quell’istante, ricostruendo in modo preciso anche il contesto in cui si è manifestato.
”Se il bravo storico – diceva Marc Bloch – somiglia all’orco della fiaba: laddove fiuta carne umana, là è la sua preda“, ebbene, Iervolino assolve perfettamente a tale mestiere, riportando ogni avvenimento alla dimensione delle cose umane. Smith e Carlos cessano di essere due entità astratte su una rivista, una maglietta o un poster, per tornare ad essere quello che furono. Due uomini calati nella categoria in cui agivano: la durata. Ovvero il presente che vivevano, dunque la storia. E in una società – quella americana (e non solo) – che riconosceva dignità agli atleti afroamericani esclusivamente per il numero sul pettorale e per la possibilità di arricchire il medagliere, sul podio olimpico Carlos e Smith utilizzarono l’unico strumento a loro disposizione per urlare al mondo intero la battaglia per i diritti umani: il proprio corpo. In tal senso furono atleti totali e il black power salute quasi una performance di teatro fisico, in cui ogni particolare acquista un significato preciso nell’estetica della protesta: il pugno destro a indicare il potere nell’America Nera, quello sinistro a simboleggiare l’unità degli afroamericani e uniti assieme a creare un arco di unità e potere. E ancora: i calzini neri a rappresentare la povertà dei neri nell’America razzista, la sciarpa al collo di Tommie a ricordare il Black Pride e le collanine di John a rievocare linciaggi e impiccagioni. Uno scatto in pista che idealmente è prosecuzione della marcia di Selma, un podio vissuto in comune con Martin Luther King (ucciso solo 6 mesi prima) e Malcolm X, una protesta, infine, condivisa con il professor Harry Edwards, architetto del Progetto Olimpico per i diritti umani.
Alle 20.41 di quel 16 ottobre 1968, Tommie Smith e John Carlos portarono sul podio tutto questo. E molto altro ancora: un anno di pressioni del Comitato Olimpico Americano, minacce, telefonate e lettere minatorie, insulti e la segregazione vissuta fin dall’infanzia. E poi lo sprint, pochi secondi di corsa per guadagnarsi un podio e il ruolo di rappresentanti della gente oppressa d’America, per diventare i portavoce di una protesta che non fu soltanto loro. Trentacinque secondi ancora per passare dagli spogliatoi dello Stadio Olimpico di Città del Messico fino alla premiazione e far sentire la voce, per tenere in alto i pugni, l’orgoglio e la propria storia. Un cammino condiviso con un giovane australiano, Peter Norman, già attivista per i diritti degli aborigeni e arrivato secondo nello sprint olimpico, che pagherà anche lui duramente il sostegno alla protesta dei due atleti americani. E proprio l’ostracismo, purtroppo, è stato il minimo comune denominatore delle vite dei protagonisti di quel podio, un bando che affliggerà la vita di tutti e tre fino almeno al 2005, anno in cui alla San José State University verrà inaugurata una statua dedicata al black power salute. Una scultura che ritrae solo il gesto di Smith e Carlos e lascia vacante il posto che sul podio fu di Norman, un vuoto che rappresenta la possibilità per qualsiasi altra persona di manifestare i propri ideali, di salire sul secondo gradino e mettere i piedi esattamente dove lui li aveva messi. Allo stesso modo di Peter, chiunque può usare quel gradino per manifestare la propria solidarietà.
E come già scritto da Simone Scaffidi su Giap: questa è proprio la prospettiva di Lorenzo Iervolino e di Trentacinque secondi ancora.
Buona lettura.
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