La Partita (giocata) del Secolo


Un sabato pomeriggio di marzo, sono andato a vedere una partita di calcio, bambini leva 2007 (in una delle due squadre gioca il mio cuginetto Edoardo, che spettacolo). Vederli correre felici e spensierati, a differenza dei genitori, tesi e urlanti sugli spalti, mi ha fatto ricordare quando giocavo a calcio io. Per divertirmi. E magari anche per vincere qualcosa: ma sempre con il sorriso. Il calcio dei bambini è davvero il calcio più bello. Innocente e libero; poi quando si cresce si peggiora e anche il gioco diventa più involuto e mediatico. Questo pezzo è dedicato al calcio dei bimbi, puro divertimento e semplicità; e ad un ragazzo che, per anni ha difeso i colori del Don Bosco (una delle squadre protagoniste del pezzo), e che oggi non c’è più: ciao Amedeo.

 

Chiunque abbia praticato sport, sia a livello amatoriale, sia livello agonistico, ha nel cuore e nella memoria, la sua prestazione preferita, la partita che l’ha emozionato maggiormente, l’incontro più “vissuto”, più partecipato e significativo della sua carriera. Oggi mi si sono aperti i cassetti della memoria, anche grazie ad un articolo del Minigol, pervenuto dagli archivi segreti di mio padre, e vi racconterò la storia della partita giocata più bella di sempre. A me pare di averla disputata l’altroieri.

Genova, Domenica 12 Febbraio 1995                

Sveglia presto la domenica mattina se sei un giovane calciatore (14 anni) e stai per affrontare la partita più importante del campionato. Mio padre è già in cucina, in pigiama, a prepararmi il thè caldo. Io faccio il resto: qualche Oro Saiwa e la cabala della colazione è sbrigata. Sempre uguale: thè e biscotti perché devo rimanere con lo stomaco leggero. Zucchero ha scritto: “che suono fa la domenica da te?”. Il mio suono, in quelle domeniche da ragazzino era proprio quello del cucchiaio che tintinnava nella tazza. Il sapore del thè. L’ansia prepartita. Gli Oro Saiwa che si sfaldano in bocca.

“La settimana era filata via troppo lentamente, tra la scuola, gli allenamenti e il big match che stavamo andando a giocare.” Questi sono i pensieri che mi balenano in testa nel tragitto casa-campo da calcio Grondona, Pontedecimo. Un viaggio affrontato silenziosamente in macchina (una Jetta meravigliosa) insieme a mio padre, assiduo spettatore delle nostre partite nonché mio autista personale.

Il Campo R.Grondona innevato e il famoso ponte di Pontedecimo

Il Campo R.Grondona visto dal satellite

La situazione in campionato è la seguente: prima giornata del girone di ritorno, noi del G.S. Gaiazza abbiamo 13 punti in classifica, siamo primi a pari merito con il Don Bosco, nostro avversario odierno. Un avversario ostico, una gran bella squadra. Chi vince balza in vetta e, probabilmente, ipoteca la vittoria del campionato.

Sempre i soliti gesti, ripetuti quasi come fossero un rituale: i saluti ai compagni, guardare il campo in terra, terra e sassi che ti hanno fatto uscire sangue, che ti hanno fatto cadere, terra e sassi che hai dentro gli scarpini, che ti hanno sporcato, che sono la tua casa, che ci avrebbe ospitato di lì a poco; studiarlo e pensare al da farsi. L’adrenalina che sale e gli avversari che arrivano, i loro volti, le loro borse granata. L’ingresso negli spogliatoi è religioso, come il silenzio che regna, mentre la concentrazione inizia ad aumentare nelle nostre teste. Mi cambio velocemente e con i compagni aspetto il momento più atteso: la consegna delle maglie e la formazione. Silenzio; siamo ragazzini ma ci teniamo a vincere il campionato di categoria (Giovanissimi Provinciali). Il mister, Osvaldo Arecco (leggete qui la sua brillante e onorata carriera, se oggi capisco qualcosa di calcio il merito è anche suo), è tranquillo come sempre, prende la parola per comunicare la formazione. Che ne sanno, quelli che non hanno mai giocato, di come si trattiene il fiato quando la domenica mattina il mister annuncia la formazione. Eccolo il 3-5-2 del G.S. Gaiazza: in porta Davide Grondona, un gatto, svelto e sinuoso. Urla per 90 minuti a tutta la difesa ma è una sicurezza. Mi ha sempre ricordato Pagliuca. I due stopper Emanuele Balestrero e Diego Zuccarelli: non chiedetegli le finezze o i passaggi smarcanti, a loro potete chiedere marcature asfissianti e museruole da mettere agli attaccanti avversari. Diego assomiglia a Vierchowod, Emanuele a Samuel. Libero e capitano Ciro Gentile, da Torre del Greco. Elegante, sicuro, introverso. La guida della difesa. Un Baresi senza il braccio alzato. Sulle fasce i tornanti, si proprio loro, quelli che oggi non esistono più, quelli che instancabilmente si facevano un culo incredibile correndo su e giù per tutta la partita, in difesa e in attacco: Francesco Cumbo, orgoglio sardo, tutto cuore e polmoni, diligente come Di Livio, instancabile come Bruno Conti; ed Emanuele Gatti, un maratoneta con il vizio del gol, un sinistro magico, come Don Andres Iniesta ma con più corsa. In mezzo al campo el tractor Valerio Ghironi, muscoli e sostanza ed una buona dose di grinta e potenza alla Gattuso; Stefano Mongillo, il moto perpetuo, mai fermo e sempre in pressing su tutti ricordando Eranio e Ruotolo, suoi beniamini rossoblu; e il sottoscritto, numero 8, la mente della squadra: non velocissimo, ma dotato di buona tecnica e visione di gioco: un mix tra Xavi e Pirlo (si mi sono autoelogiato). Davanti il 9 e il 10: Marco Barbieri, la gazzella potente, un’esplosione di rapidità e velocità, un cocktail tra Batistuta, Inzaghi e Vialli; e poi lui, l’inimitabile numero 10, il più basso di statura, ma il più dotato tecnicamente. Il più geniale pazzo e schizzato numero 10 con cui io abbia mai giocato: Pasquale Tripodi. Mezzo Baggio e mezzo Cassano. Da solo poteva farti vincere le partite, quando ne aveva voglia. E oggi di voglia ne ha davvero tanta. In panchina ci sono Manuel Sorrenti, la scheggia, velocissimo e creatore di scompiglio alla Cuadrado, Noram Dellacasa attaccante “coloured” stile Drogba, Matteo Cremonini il jolly della squadra; e il numero 12, Ilic Punginelli: matto totale e fedelissimo dodicesimo. Il vero uomo spogliatoio, il collante della squadra.

Insomma non siamo male, ma non siamo nemmeno i favoriti: il Don Bosco, con le maglie sponsorizzate Caffè Ekaf e griffate Erreà è la squadra da battere. Sono bravi, sono forti. Noi la “favola della provinciale”. Piove leggermente, il riscaldamento è lungo e intenso, bisogna rompere il fiato e prendere confidenza con il pallone. “Quando piove ci esaltiamo”, io penso. Da lì in poi è tutto una corsa a capofitto nei ricordi, sempre più veloci ed indelebili: l’appello dell’arbitro, l’attesa nel sottopassaggio del campo, le facce degli avversari, la sfida, l’adrenalina e la voglia, che si legge negli occhi, di dirsi: “oggi vinciamo noi”. Ricordo l’odore dell’unguento per massaggi, del piscio dei bagni degli spogliatoi, del grasso dato sulle scarpe da gioco. E il gusto in bocca, indelebile, del thè della domenica mattina. Ricordo mio padre sugli spalti, con un giaccone verde della Fila, fumare per tutti i novanta minuti; ricordo un Gatti goleador ispiratissimo e il mio lancio sul primo gol di Barbieri; ma soprattutto ricordo la cavalcata trionfale, sul terzo gol, alla Maradona, dalla nostra area fino a quella avversaria, di un immenso Tripodi; sembrava Alberto Tomba in uno slalom speciale, li saltava tutti, sembrava baciato dagli Dei del Calcio come tutta la squadra. Ricordo l’esultanza, tutti abbracciati al nostro numero 10 sotto la gradinata del Grondona. Vincemmo 3 a 1. Vincemmo il campionato. Ricordi meravigliosi di un calcio adolescenziale e romantico, che in fondo, vorrei ritornare a giocare.

Qui sotto l’articolo estratto da Minigol che mi è arrivato tra le mani grazie alla sapiente e metodica archiviazione eseguita da mio padre.

 

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Francesco Salvi
Da 35 anni appassionato di gesta sportive a 360°, fin da bambino ho praticato diversi sport, ma con scarsi risultati: calcio a livello agonistico, tennis, sci e l’odiatissimo nuoto. Il mio sangue è al 50% genovese, al 10% marchigiano e al 40% sampdoriano. Ho un debole per il divano di casa mia dal quale seguo indifferentemente qualsiasi competizione sportiva venga trasmessa in tv. Anche perché dal divano: “questo lo facevo anch’ io”. Sportivamente vorrei possedere: l’eleganza di Federer, la follia geniale di Maradona, il fisico di Parisse, la potenza di Tomba, l’agilità di Pantani, il romanticismo di Baggio e la classe di Mancini. Ma è impossibile, quindi rimango seduto.
Francesco Salvi

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8 commenti

  1. diego

    Regali perle ad ogni riga!
    Ci sarebbe da passare una serata o forse piu’ a ripercorrere quella giornata. Magari seduti la’, in gradinata…

    • Francesco Salvi
      Francesco Salvi
      Author

      Si, Die hai proprio ragione…birretta in gradinata e tanti ricordi…anche se il campo in erba sintetica è molto meno romantico di quello in terra battuta.

  2. diego

    Ma soprattutto gli spogliatoi vecchi avevano un sapore magico, carico di storia e ricco di ricordi. Bastavano i primi scalini del sottopasso per entare in un’altra dimensione…Impareggiabile!

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